Voghera, la memoria di Trieste

Voghera, la memoria di Trieste L'INTERVISTA. Compie 90 anni l'ultimo testimone della stagione mitteleuropea Voghera, la memoria di Trieste «Saba e Svevo le mie guide» TRIESTE NA torta casalinga poco zuccherata, il solito ta- I 11 volino all'aperto nell'aSLj nonimo bar di quartiere, gli amici, nuovi e vecchi, seduti tutti attorno. Il 19 agosto Giorgio Voghera, ebreo triestino, scrittore, saggista, ultimo testimone ed erede della grande stagione letteraria di Trieste, compirà novant'anni. Un balzo che sfiora un secolo e che circoscrive un'epoca che da Svevo porta fino ad Internet, dove (nel sito http://www.itaUca.org) una serie di lezioni dell'intellettuale triestino, guardacaso proprio sull'opera di Svevo, «navigano», in barba alla sua veneranda età. II giorno del compleanno non sarà però un giorno di festa, ma ventiquattro ore diverse dalle altre nelle quali al festeggiato serviranno «pazienza e gentilezza a rintuzzare gli auguri e gli abbracci» che gli arriveranno da mezzo mondo. Fin nel bar che fa torto alla grande tradizione dei grandi Caffè triestini, ma che è a due passi dalla Pia casa di riposo «Gentilomo», da oltre dieci anni dimora di Voghera. E' qui, al tavolino del bar affacciato sulla piazza e sullo spettacolo del viavai quotidiano della gente, che attorno allo scrittore triestino, a mattine alterne, si ricompone un insolito cenacolo di eclettici novantenni: sono gli epigoni della numerosa, ricca e colta comunità ebraica di Trieste che in Umberto Saba ed Ettore Schmitz, in arte Italo Svevo, ha avuto i suoi uomini più grandi, i protagonisti dell'irripetibile stagione letteraria della città. Come festeggerà allora il suo compleanno quest'uomo schivo e complesso, tanto vicino all'arte quanto lontano dalla vita? «Beh, mi festeggeranno gli altri - scherza l'autore di Quaderno d'Israele e de Gli anni della psicanalisi - e sinceramente credo che ciò mi darà anche un po' di noia - confida -. Ma sarò contento: l'affetto degli amici ha un valore inestimabile. In fondo però i miei anni sono troppi e non sono felice di aver vissuto così a lungo». Come per molti intellettuali triestini, e tra questi in particolare il grande Saba, la vita è un doloroso disguido. Per Voghera «l'esistenza è un inestricabile groviglio di piccoli e grandi problemi che si accavallano instancabilmente». «Non voglio fare piagnistei - dice -, non ho motivo per farli. Non ho cullato ambizioni e quindi non ho subito il contraccolpo delle disillusioni. Ho avuto una relativa fortuna nella vita ma, evidentemente, c'era qualcosa che non andava tra me e l'univer- so». «In realtà ho giocato il gioco della vita sempre in difesa ammette -. La mia preoccupazione è stata quasi sempre di evitare malanni e sofferenze, non tanto di raggiungere qualcosa. In un periodo difficile della mia vita, quando sono dovuto emigrare in Palestina negli anni della guerra, mi sono illuso per qualche tempo di poter ricominciare da capo sotto auspici migliori, soprattutto dal punto di vista morale. Sapevo che proprio in quegli anni la vita in Palestina era molto difficile - continua -. Mi illudevo però che liberarmi dall'atmosfera pesante del fascismo mi avrebbe aiutato a vivere con maggiore leggerezza. E invece...». Carattere difficile, vittima come dice lui stesso della pedanteria e del desiderio quasi ossessivo di essere preciso, Voghera lascia aperto almeno uno spiraglio: «Da ragazzo ho avuto conforto dalla lettura e rilettura di Dante, il genio più grande mai sceso sulla Terra - spiega e dei narratori russi, in particolare Dostoevskij, con i suoi magistrali psicologismi». Oltre alla lettura molta consolazione ha dato anche la scrittura, arrivata tardi nella vita di Voghera ma giunta come impulso liberatorio. Tutto merito de II Segreto, il libro scritto dal padre, Guido, nel quale Giorgio è il protagonista. «Sulla scia del Segreto - aggiunge Voghera - ho cominciato a pubblicare anch'io, facendo morire certi pensieri ossessivi sulla carta. Ma sia chiaro: pur restando sempre tiepido nei confronti del mio ruolo di scrittore, ho avuto sempre ben chiaro invece di essere un "povero diavolo"». I grandi, i due concittadini conosciuti o solo sfiorati per le strade del centro, sono, inequivocabilmente, Saba e Svevo: «Saba è uno dei poeti più grandi - racconta Voghera -. Era consapevole d'esserlo ed era dotato, suo malgrado, di un carattere terribile. Ciò nonostante i suoi discorsi erano sempre straordinariamente illuminanti, acuti e profondi». E Svevo? «Non ho mai avuto rapporti diretti con lui - ricorda ancora -, lo vedevo di sfuggita soprattutto al Caffè Municipio in piazza Unità. Mi colpivano i suoi occhi, un po' sporgenti e inquieti, e lo sguardo profondo e avvolgente, lo stesso che sento muoversi in Una vita, la sua opera che più apprezzo nonostante sia quella d'esordio e anche la meno nota». Altro che James Joyce, triestino d'adozione sul quale viene espressa ben diversa opinione. «Non l'ho mai capito e mai apprezzato - sottolinea con fermezza -, lo trovo troppo cerebrale. La sua opera mi è lontana. Per di più, il suo modo di vivere, disordinato e alcolico, che in lui è visto come sregolatezza del genio, in un uomo comune sarebbe giudicato, invece, come deviazione, malattia, difetto». Voghera non scrive più libri da tempo: in passato la sua creatività era mossa da una certa coazione, da un impulso nevrotico che con il tempo è scemato. Ora continua a essere un fiume in piena nella corrispondenza. «Al punto da farmi rimproverare da chi mi è vicino - chiosa -. Ma a me va bene così, è un modo per occupare i miei pomeriggi e per restare in contatto con gli amici lontani. Scrivo e riposo. Capita poi che, ogni tanto, la testa vacilli. Allora comincio a non vedere bene e a perdere il filo della realtà. Mi stendo sulla poltrona della mia stanza a riposare un po' in attesa che il filo perduto torni a me». Elena Marco «Il poeta sapeva di essere grande, nonostante ciò aveva un carattere terribile; lo scrittore colpiva per lo sguardo avvolgente, lo stesso che sento muoversi in Una vita» Il poeta Umberto Saba Sopra: Giorgio Voghera (foto Bagli) Sotto: Italo Svevo