Nell'ultima trincea albanese

Nell'ultima trincea albanese Nell'ultima trincea albanese Tra i guerriglieri dell'Uck in rotta 8g8ag88gS3S8S888affl8attMfiMa UNA GUERRA EUROPEA SEDLARE DAL NOSTRO INVIATO Sembrano vacche sacre, invadono la strada e continuano a muoversi con indifferenza sovrana. 0 forse sono mucche patriote, perché quando l'autista suona il clacson, un pastorello le prende a bastonate e finalmente la mandria si apre, dietro gli animali spuntano i guerriglieri. E' una scena surreale. Due ragazzi brandiscono grandi mitra coi caricatori a ruota, fanno cenno all'auto di fermarsi, chiamano in aiuto altri armati che spuntano dalle casupole del villaggio. Partiti alla ricerca di profughi, passati i soliti controlli serbi, ci siamo inerpicati su una collina che sembrava offrire solo scene di vita agreste e adesso eccoci qui, quasi per caso, in un avamposto dell'«Uck». Ma i guerriglieri non s'erano ritirati fino al confine? Pare di no. Questo villaggio di collina sembra tratto da un dipinto di due secoli fa, eppure in linea d'aria dista meno di 40 chilometri da Pristina. Siamo a Sud-Ovest della capitale, la valle è sotto il completo controllo serbo, i profughi sono fuggiti più in alto. In teoria quest'area dovrebbe essere già «ripulita» e invece deve trattarsi di una delle zone che secondo i militari accolgono «sacche di resistenza». O forse, solo di sopravvivenza. C'è qualcosa di strano, in questi combattenti: vorrebbero mostrarsi aggressivi ma riescono solo ad esprimere spavento, non uno indossa più la tuta mimetica, i simboli dell'«Uck» sono scomparsi da maniche e spalline. Più che avamposto, questa è la retroguardia di un gruppo in piena disfatta. Il villaggio sembra rimasto impermeabile allo scorrere dei secoli: una stradina si arrotola fra povere case e tipici recinti albanesi, per sfociare in una piazza dominata dall'antica residenza del «Bej». All'ombra di un muro, un gruppetto di uomini sta accoccolato e mangia qualcosa di simile ad una zuppa di pollo. Al centro, i ragazzoni armati dominano la scena. In tutto, ci sarà una cinquantina di persone. «Parli tedesco? Io vengo dall'Austria, lavoro lì da cinque anni...». Quello col mitragliatore più grosso sembra farla da padrone, dà ordini agli altri, fa partire una vecchia Golf nera in direzione della montagna. Il nome? Sceglietelo voi, tanto in questo «esercito di liberazione» non c'è più un soldato che non si faccia chiamare Falco, Aquila, Tigre o Giaguaro. Adesso nel clima di disfatta i nomignoli guerreschi suonano un po' patetici, ma sarebbe assurdo chiedere il nome autentico a qualcuno che si appresta a scomparire avviandosi per le campagne o mescolandosi ai profughi. «La situazione militare? E' buona: i serbi ci hanno bombardato anche ieri ma noi teniamo il villaggio...». L'ostinazione del giovanotto è commovente, verrebbe da togliergli il mitra dalle braccia e dargli una pacca consolatoria. «Come vedi la gente è fuggita via, siamo rimasti soltanto noi, non vogliamo vittime fra i civili. Ma se i serbi avanzano sappiamo bene come fermarli...». Sì: come? Se al posto dell'auto che ci ha portati fin qui comparisse un blindato, quest'avamposto si squaglierebbe e una sola cannonata farebbe saltare mezzo villaggio. La «Golf» partita verso la montagna torna con un'altra persona a bordo, questa volta un «comandante» dall'aspetto più convincente. Lui, almeno, porta ancora la divisa e quell'aquila stenta che è simbolo dell'«Uck». Di movimenti militari non si parla, e d'altronde ci sarebbe poco da dire. Più ad Ovest, ver¬ so il confine, a Klina il cosiddetto «quartier generale» del movimento sta sbaraccando. Una tv ha ripreso guerriglieri che si cambiano, rasano le lunghe barbe in stile islamico e riprendono l'aspetto comune. Però si può parlare di profughi, soprattutto quelli fuggiti da Malisevo, la roccaforte del¬ l'«Uck», presa una decina di giorni fa. «La gente fuggita da quell'area si è divisa in due tronconi», racconta l'ufficiale. «Alcuni sono andati verso Orahovac, in direzione del confine, gli altri invece si sono rovesciati su queste colline. Adesso sono in quei boschi lassù: c'è acqua da quelle parti, ma non trovano nulla da mangiare e questo caldo li stronca». Quei profughi adesso sono due volte ostaggi: a valle, i serbi continuano a pattugliare le strade, a controllare ogni auto, ogni passante. Qui, gli uomini dell'«Uck» ancora fanno finta di resistere in attesa di mime¬ tizzarsi nel mucchio. Le organizzazioni umanitarie non hanno alcuna possibilità di raggiungere i rifugiati fino a quando questa guerra virtuale non si sarà esaurita. Ma è vero che tutti i sentieri di montagna sono stati minati? E' vero che i serbi vi hanno chiuso ogni possibilità di fuga? «E' vero che hanno sbarrato con le mine i passi principali, ma i nostri sentieri esistono ancora, sappiamo come attraversarli...». Anche l'ufficiale ostenta una sicurezza che suona falsa. Non appena gli chiediamo di raggiungere i profughi, di muoverci attraverso l'area che pretende di controllare, lui rifiuta. «Non c'è nulla di sicuro, ci sono ancora movimenti di truppe». In realtà ci sono soltanto gli ultimi gruppi di cecchini nascosti nei boschi. Riescono a tenere lontana la polizia serba con tiri sporadici ma non hanno alcuna speranza. Uscire da Sedlare per dirigersi a valle è un po' come uscire da una leggenda medioevale, e non solo per via dei tuguri che ci lasciamo alle spalle. Privi di barbe e divise, con quell'aria così poveramente moderna i ragazzotti dell'«Uck» adesso paiono altret- tanti reperti, schegge di una leggenda che si è improvvisamente dissolta. Avevano preso le armi sulla base di un sogno, pensavano di rifarsi alle tradizioni più antiche, all'idea della Grande Albania: stanno crollando sotto i colpi di una polizia organizzata come un esercito che non lascia alcuno spazio ai miti. Chissà a quale ala dell'«Uck» appartenevano questi ragazzi. Quella più dura, degli irriducibili, dei «mujaheddin» continua a resistere dalle parti di Junik, a ridosso del confine, annunciando improbabili arrivi di forze fresche. Gli altri se ne vanno e tentano strade diverse. La prima sarà quella dell'emigrazione: se nuove ondate di profughi si riverseranno sulle nostre coste, saranno composte non più da donne e bambini, ma in massima parte da giovanotti che hanno imparato ad usare il mitra. Tenteranno di tornare verso l'Austria e la Germania, dove prima lavoravano, chiederanno lo stato di rifugiati politici potendo esibire ferite o stati di servizio. Una pericolosa falange di sconfitti che non ha ancora rinunciato del tutto alla ribellione. Per quelli che resteranno in Kosovo, il futuro si annuncia ancora più cupo. Mentre le mediazioni internazionali continuano inutilmente a rincorrersi, l'ala più intransigente dell'«esercito di liberazione» sembra già pronta a continuare la lotta con altri mezzi. In situazioni come questa a parlare di «altri mezzi» significa aprire la strada agli atti di terrorismo e se così fosse, tenere la situazione sotto controllo diventerebbe impossibile. Sembra casuale, ma proprio mentre l'armata degli albanesi si sta dissolvendo, dall'altra parte delle montagne si alza un allarme che sembra pronosticare un trasferimento della guerriglia. Dalla vicina Macedonia, il vice primo ministro Jefferi già teme che «l'aggressività degli albanesi si trasferisca nel nostro Paese». Giuseppe Zaccaria L'esercito jugoslavo controlla la valle ma sulle colline resistono gruppi di quello che volle essere un esercito Ragazzini col mitra fermano le auto. Hanno gettato le tute mimetiche e si sono tagliati la barba, pronti a fuggire Una donna di etnia albanese allatta il suo bambino nel villaggio di Cirez. In alto: piccoli profughi [fotoap]

Persone citate: Aquila, Giuseppe Zaccaria, Ragazzini

Luoghi citati: Albania, Austria, Germania, Kosovo, Macedonia