E DIO CREO' L'INDIA CON MOLTO COMODO di Claudio Gorlier
E DIO CREO' L'INDIA CON MOLTO COMODO E DIO CREO' L'INDIA CON MOLTO COMODO Viaggio con Ghosh, Krishnamurti e Mehta LI/INIZIO del secolo, due donne esercitarono un'influenza non indifferente nei circoli letterari inglesi e in parte degli Stati Uniti. Una, Annie Bésant, studiosa, conferenziera, animatrice di salotti, amica di G. B. Shaw, influenzò il primo Yeats. L'altra, di origine russa, E. P. Blavatsky, apprezzata medium, divenne la mitica Madame Blavatsky, e compare addirittura nel joyciano Ulisse, in «Eolo». Fu la seconda a fondare la Società Teosofica, in cui la Bésant pure militò, terreno ideale per la esplorazione e la professione di miti religiosi, iniziazioni misteriche, frequentazioni mistiche (lo stesso Pirandello non fu insensibile agli influssi della Società). Una fonte privilegiata, sotto questo profilo, si trovava nelle religioni e nelle filosofie indiane. Spesso le opere della Bésant uscivano contemporaneamente in Inghilterra e in India; in India la Bésant soggiornò, e un'eco recente della sua presenza si coglie nel romanzo di Amitav Ghosh, Cromosoma Calcutta. La fascinazione dell'India non ta. a faioe delndia non costituiva una novità: senza contare il classico Passagge to India in Walt Whitman, va rammentato che a una delle figure cruciali della cultura americana dell'Ottocento, Ralph Waldo Emerson, si deve una breve, singolare poesia intitolata Brahma. La Società Teosofica e i suoi adepti, peraltro, ebbero il privilegio di attingere direttamente alla sapienza indiana e a personalità cruciali che vi appartenevano, in primo luogo Jiddu Krishnamurti. La pubblicazione di Verso la liberazione interiore di Krishnamurti giova non poco a comprendere meglio una simile matrice. Krishnamurti, infatti, va considerato uno dei tre massimi pensatori, poeti e scrittori indiani del periodo, insieme a Tagore (insignito tra l'altro del premio Nobel) e a Aurobindo. Nato nel 1895, morto nel 1986 in California, Krishnamurti, il cui nome, scritto anche Krishnamoorti, significa Krishna nell'uomo, e dunque divinità incarnata, si staccò gradualmente dalla Società Teosofica e proseguì lungo un itinerario proprio, appunto per questo vale la pena di rifarsi direttamente ai suoi scritti, di cui questo volume offre una scelta rappresentativa, con una introduzione di Radhika Herzberger e una intervista di Carlo Buldrini. Se dovessimo scegliere due parole chiave, sarebbero certamente «meditazione» e «illuminazione» concetti base dell'induismo. La meditazione, spiega Khrishnamurti, parte dalla conoscenza di sé, proiezione dell'inconscio, degli stati più intimi della coscienza, e varrebbe la pena di confrontare un simile esame delle «vie del sé» con un altro dei grandi apporti culturali dell'inizio secolo, la psicanalisi freudiana. L'illuminazione conduce a uno dei principi basilari dell'induismo, vale a dire il rifiuto della dualità. La negazione dei valori costituiti, delle chiese istituzio¬ nali, prepara alla libertà della mente nella sua ricerca dell'estasi, della vita e della morte, dell'amore. «Illuminazione significa essere luce a se stessi», ma certo non fuggire dalla vita. Questa «libertà da tutte le religioni e da tutte le ideologie» spiega la fortuna della sapienza indù ma si presta altresì a semplificazioni e travisamenti che sono oggi moneta corrente in tutto il mondo occidentale; d'altro canto, la lezione di Krishnamurti offre più di una chiave per comprendere la complessità in apparenza contraddittoria di un'India che si avvia a sostenere una parte sempre più decisiva nell'immediato futuro. Contraddizioni, enigmi apparenti o nascosti, dell'India contemporanea emergono con ammirevole lucidità, con passione e disincanto, nel libro di un'intellettuale di considerevole acume e vivacità come Gita Mehta. Scrittrice, saggista, giornalista, sconsacratrice di miti d'accatto (i guru commercializzati, in Karma Cola) Mehta ha raccolto una serie di osservazioni, commenti, reminiscenze, in II gioco delle scale e dei serpenti. «L'India moderna è un vasto paesaggio in cui prevale un'aspra disarmonia», essa scrive prendendo le mosse da un giudizio, che ritiene troppo severo, proprio di Tagore: «Mio triste paese, vestito di logori stracci, carico di decrepita saggezza». Si tratta, dunque, di guardare senza indulgenze alla realtà di oggi, e di «gettare un ponte tra passato e presente». Mehta riesce a offrire una franca rappresentazione dell'India del dopo indipendenza in una prospettiva chiaramente diversa della saggezza mistica di Khrishnamurti, ma rifacendosi di continuo al flusso ininterrotto di una sapienza antica, e confrontandolo con le urgenze imperiose della scena persino immediata. Ecco allora un Paese dal vertiginoso progresso industriale e tecnologico che, da un lato, conta diciotto milioni di persone che si sfamano grazie ai loro arcolai a mano, mentre centinaia di migliaia letteralmente razzolano nella spazzatura delle periferie delle grandi metropoli, e dall'altro aspira a divenire anche militarmente una grande potenza mondiale. L'esplosione recente delle atomiche indiane ha provocato in Occidente reazioni in massima parte ostili, ma non si tratta di una generalizzazione? Parlando con 1 autrice dopo l'uscita del libro in italiano, e partendo da quelli che essa giudica alcuni degli errori politici di Nehru (per tacere della dinastia che gli è seguita) abbiamo convenuto che la minaccia incombente va individuata non nel Pakistan, ma nella Cina, che Nehru sottovalutò e che ora sta ricevendo la neppur troppo tacita benedizione degli Stati Uniti. Certo, il ricordo del Mahatma Gandhi, della sua predicazione non violenta, dei suoi progetti spezzati dalla morte violenta, induce Mehta, che aveva cinque anni quando Gandhi venne assassinato, a concludere che quei progetti si sono in larga misura dissolti. «Non aveva nemmeno raggiunto la pira funebre che la sua fortuna era finita». Viaggiatrice tra India, Europa e Stati Uniti, Gita Mehta non ha tagliato le sue radici e la sua capacità indiana del racconto, della riflessione. Pensiamo al capitolo finale, «L'attività dell'ozio», specie di poemetto in prosa, permeato del senso indiano del tempo libero e tranquillo, un grande dono. «Di certo Dio creò l'India con comodo». Claudio Gorlier Da inizio secolo ad oggi: religione, Stato, cultura e fascino di un subcontinente nella poesia, nei saggi e nei racconti dei suoi scrittori divisi fra patria e Inghilterra
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