«Tenete in Italia solo i puri di cuore» di Cesare Martinetti

«Tenete in Italia solo i puri di cuore» «Tenete in Italia solo i puri di cuore» L'imam di Agrigento: bisogna cacciare gli spacciatori REPORTAGE IL DILEMMA DEGLI ISLAMICI AGRIGENTO DAL NOSTRO INVIATO Mustafà l'imam fa su le sue cose: reggiseni col pizzo, bianchi, rosa, azzurri, occhiali da sole, tappetini, coprisedili per auto, borsette da allacciare alla vita (le fanno i senegalesi), magliette per bambini (le fanno i cinesi), spugne da mare. Un emporio ambulante, un'evoluzione del vu' cumprà. Il sole cuoce la polvere del mercato al campo sportivo, bivio di razze e di umanità sullo sfondo di questa colata di cemento che è Agrigento. Sono le 13 e Mustafà deve andare in moschea. E' venerdì, si prega cinque volte, oggi. La «moschea» è un garage intanato nei tufi del centro storico. Mustafà passa da casa a lavarsi, arriva con le ciabatte e una tunica bianca appena stirata, ricamata, leggera, molto bella. Le 14 sono passate da cinque minuti. Gli ultimi ad arrivare sono due pakistani così piccoli che sembrano bambini. Posano i carrelli con le loro robe da vendere, si infilano nel bagno. si lavano i piedi, tornano sui tappeti, si inginocchiano e ascoltano. Ventidue fedeli. Uno che conduce la nenia. Mustafà in un angolo, come si volesse tenere in disparte. Si inchina, inginocchia e raccoglie. C'è una certa atmosfera scandita dal sottofondo di preghiere che sembrano un lamento continuo. Mezz'ora. Poi tutti si salutano. Le mani che si stringono e poi passano sul cuore: ciao fratello. Ciao. C'è anche un italiano, impiegato della Regione, con la sua tunica e il suo zucchetto. Si chiamava Giuseppe; adesso è Yusuf 'Abd al Hadi Dispoto. Ci racconta che la Comunità religiosa islamica italiana vuol fare un concordato con lo Stato: «Siamo la seconda religione italiana». Un milione, forse due milioni di fedeli. Qui le moschee sono a decine, magari intanate nei garage come questa: a Licata, Sciacca, Aragona, Raffadani... Mustafà Namani è l'imam di Agrigento. E' di Casablanca, Marocco. Professione sarto. Ha 43 anni, è arrivato nell'89. Ha fatto di tutto. Adesso fa il venditore ambu¬ lante che - se fosse plausibile un paragone - potrebbe equivalere ai «preti operai» di trent'anni fa: il vangelo, il Corano, vissuto tra la classe lavoratrice. Ma Mustafà, come i suoi fratelli, continua a fare di tutto. Anche il giardiniere, il pomeriggio. Lui e i suoi fedeli ci raccontano di questa piccola moschea, che l'affitto costa 400 mila lire al mese e tutti si tassano di qualcosa, del fatto che hanno chiesto al sindaco di Agrigento un pezzo di terra dove edificare una vera moschea e non gli hanno ancora risposto. Mustafà ha fatto venire in Sicilia sua moglie Fatima, che ha 30 anni e anche lei faceva la sarta a Casablanca, anzi la «stilista», dice. Hanno tre figli, 10, 4 e 2 anni che quando loro sono al mercato stanno a casa da soli. Si vive? «Si vive», dice Mustafà che ha un occhio svergolato, la faccia buona, l'italiano lento, lo sguardo ieratico. Tutti lo chiamano shaykh, che è come dire saggio. Dicono che, nell'Islam, ognuno è imam di se stesso, non c'è clero, non c'è gerarchia ecclesiale o dottrinale. Però non c'è dubbio che Mustafà è più imam degli altri: parla poco, ascolta, scandisce le pause e detta l'inclinazione del pensiero. Allora, caro Imam, perché oggi venerdì lei è qui nella sua piccola moschea e non a pregare insieme ai fratelli clandestini sbarcati a Lampedusa che sono musulmani e hanno un gran bisogno di conforto? Mustafà ci pensa un po', gira e rigira le parole, poi dice che lui, nei campi, c'è stato, martedì. Ha visto la gente, gli ha parlato, che per pregare non c'è bisogno dell'imam, ma ognuno può fare da solo: si mette in un angolo, pulisce per terra, si volta verso la Mecca e pregasi, ma non sarebbe meglio essere là? E cosa dice, imam, di quei duecento disperati che tutti considerano i più «cattivi» tra quelli arrivati in Sicilia? Bisogna rimandarli a casa? Mustafà ci ripensa, dice che bisognerebbe tenere in Italia quelli che hanno il «cuore puro», che sono venuti per lavorare; e rimandare in Tunisia quelli che sono venuti per «spacciare droga» e fare tutte quelle cose che l'Islam proibisce. Ma come si fa a distinguere? «Bisognerebbe guardarli negli occhi e nel cuore». E lei lo ha fatto? A questo punto le parole dell'imam diventano un bisbiglio. Si capisce che nei calderoni dei «campi» di Agrigento ci sono i «puri» e gli «impuri», che all'imam non piacciono i «tunisini», quelli con le cicatrici esibite come medaglie e che sono arrivati in Italia per scappare dalla polizia del proprio Paese. Fmita la preghiera, finita la conversazione. E' chiaro che l'imam Mustafà, con il suo carretto di reggiseni e di occhiali da vendere sui mercati, vuol tenersi ben alla larga dalla battaglia di Lampedusa, passata e ventura. Bisogna fare attenzione, ci spiega Giuseppe-Yusuf, a non confondere Islam e immigrati clandestini: non sono la stessa cosa. Ci sono i buoni e i cattivi. Loro stanno con i buoni. E i «cattivi»? A casa. Cesare Martinetti