Con i «patrioti» di Milosevic di Giuseppe Zaccaria

Con i «patrioti» di Milosevic Con i «patrioti» di Milosevic / miliziani ripuliscono i villaggi occupati UNA TRAGEDIA EUROPEA PRISTINA DAL NOSTRO INVIATO I campi di grano sono bruciati per chilometri, dov'erano le distese di mais si stende un nero tappeto di stoppie, all'orizzonte colonne di fumo indicano case che finiscono di consumarsi. La fine del sogno di un Kosovo albanese è tutta in questa valle fumante, in questo panorama di devastazione. Non che prima questi luoghi offrissero scorci straordinari. Mostravano il classico, povero panorama di un angolo residuale di mondo, quattro campi, gruppetti di case, vecchie e cigolanti «Zastava» e gente direttamente estratta dagli Anni Cinquanta. Eppure anche questa povertà adesso riesce a sembrare più povera. Semplicemente, quel poco che c'era non c'è più: l'offensiva militare serba si è conclusa, l'«Uck» è in ritirata anzi si sta letteralmente squagliando, com'era nella logica delle cose. Si sparacchia ancora in qualche villaggio, a ridosso della frontiera albanese i secessionisti resistono a Junik, che è il loro villaggio-simbolo. Questa notte, o la prossima, o l'altra ancora, si dilegueranno come stanno facendo ormai da giorni, gettando armi e tute mimetiche, rasandosi le barbe, sfruttando il buio non per tornare verso l'Albania (i passi di montagna sono minati) ma per confondersi tra la gente comune, magari fra i profughi. Ecco, i profughi. Si calcola siano 200 mila, in questo momento continuano a girare in tondo, come una gigantesca mandria rassegnata, si nascondono nei boschi un po' per sfuggire agli scontri, un po' per proteggersi da questo caldo assassino. Hanno bisogno di cibo ed acqua, se non li troveranno presto cominceranno a diffondersi malattie infettive, ma finché 1'«operazione di polizia» non sarà finita non ci sarà organizzazione in grado di raggiungerli ed aiutarli. E comunque, prima i serbi li controlleranno uno ad uno per scovare i guerriglieri nascosti tra loro. Catastrofe umanitaria? E' assolutamente ovvio. Ma quando un mese fa dall'altra parte del confine si potevano vedere i giovanotti che accorrevano entusiasti all'appello per la Grande Albania, sarebbe stato così stupido cercare di fermarli, così difficile immaginare quest'esi¬ to? Quando i «jet» della Nato incrociavano, fintamente minacciosi, ai margini di questi cieli, non sarebbe stato più utile qualche soldato a piedi schierato sui passi di montagna? Non è andata così, comunque, ed oggi mentre l'«Uck» registra un'autentica batosta militare la polizia serba celebra una vittoria finta. Era troppo facile combattere con gente che fuggendo abbandona «Kalashnikov» fatti in Albania e persino vecchi «Carcano-Mannlicher», fucili italiani della Seconda Guerra mondiale venuti fuori da chissà quale scantinato schipetaro. La fine della guerriglia, poi, forse significherà ripresa del terrorismo. Ma intanto dovreste vedere lungo la strada che da Pristina va a Klina, Decani, Djakovica, i giovanottoni in tuta blu che alzano le tre dita nel classico saluto serbo. Sono euforici. Ricompaiono anche i miliziani: ormai si mostrano senza problemi, girano in gruppi compatti per le campagne, indossano tute stinte, esibiscono barbe e simboli cetnici. Si occuperanno del lavoro «sporco», come sempre: finora la polizia si è limitata a bombardare per ore i villaggi, a fare in modo che civili e combattenti fuggissero prima di farvi ingresso. Alcuni centri sono stati bombardati dall'alto: gli elicotteri spandevano gas lacrimogeni finché la gente non era costretta ad andarsene. Adesso, in attesa che gli ultimi focolai di guerriglia si spengano, ai cosiddetti volontari resta il compito di ripulire davvero il territorio. Lavorano da soli, perfino la polizia jugoslava, che notoriamente non è composta da femminucce, resta lontana dalle loro aree d'azione. Su qualche blindato sono ricom¬ parsi i simboli cetnici. Qualcuno dice che quei «patrioti» siano uomini di Arkan: per la verità non ho trovato il coraggio di domandarglielo direttamente, ma a giudicare da abbigliamento e toni quegli energumeni ubriachi parevano gente di Seselj, del partito radicale, i nuovi fascisti serbi. Su quel che resta di una casa di Malisevo, ieri una scritta a spray sembrava il sarcastico epitaffio al sogno folle di un gruppo guerrigliero. Qualcuno aveva scritto: «Viva l'Uck, viva la Nato»: chissà quale fra le due organizzazioni ha deluso di più. E' di fronte a questa devastazione che il senso di certe iniziative comincia a mutare di significato. Adesso, per esempio, parlare di «intervento Nato» significa ipotiz- zare un pattugliamento dei confini esterni al Kosovo. E ieri anche un certo Ibrahim Rugova, già grande pacifista offuscato dalla radicalizzazione dello scontro, è tornato sul proscenio con un'iniziativa che non avrebbe avuto grande significato se non fosse coincisa con la disfatta dei «duri». Ieri, per decisione di Rugova, il Kosovo albanese celebrava la sua giornata di «lutto nazionale». Per due mesi, cortei numerosi e pacifici avevano attraversato Pristina ogni giorno fino a che alla fine di giugno il linguaggio delle armi aveva preso il sopravvento. Ieri mattina ancora una volta la gente albanese è tornata a marciare. In gran parte si trattava di donne, tre o quattro mila donne che sfilavano in silenzio tenendo ciascuna una candela in mano. E' stato un corteo breve, singolare, che attraversava una città stranita: pochi minuti per dire che l'idea di un Kosovo reso autonomo da una pacifica trattativa trova ancora dei sostenitori tra gli albanesi. Quelle candele, poi, sono state piantate sui marciapiedi come tante pietre miliari. Dal giorno in cui i cortei si erano interrotti e l'«Uck» aveva preso il comando delle cose, in questa regione sono morte almeno 500 persone e 200 mila vagano ancora per i campi in attesa di tornare in villaggi devastati. Giuseppe Zaccaria Ancora una volta migliaia di donne sono sfilate a Pristina per ribadire il sogno dell'autonomia

Persone citate: Carcano, Ibrahim Rugova, Milosevic, Rugova, Seselj

Luoghi citati: Albania, Kosovo