Clinton: prendeteli ad ogni costo

Clinton: prendeteli ad ogni costo UNA NAZIONE SOTTO CHOC Clinton: prendeteli ad ogni costo on lo spettro del terrore globale NEW YORK DAL NOSTRO INVIATO Quando, alle 5 e 30, ora di Washington, il consigliere Sandy Berger lo ha tirato giù dal letto annunciandogli un'emergenza, il presidente Clinton avrà temuto che l'incubo Monica tornasse a tormentargli l'esistenza. Era invece, il richiamo alla vita vera, all'incubo della morte e all'emergenza che nasce dal terrorismo e non dall'erotismo. All'alba del 7 agosto, l'America si è svegliata, letteralmente. L'Fbi ha messo in testa alle priorità non più la scoperta della paternità di una macchia sul vestito, ma quella di due bombe nelle ambasciate d'Africa e ha imbarcato agenti e medicinali sul primo aereo. Bill Clinton è tornato nel giardino delle rose della Casa Bianca per invocare giustizia e nessuno ha pensato alludesse a Ken Starr. In televisione, su Internet, nei vagoni della metropolitana, sguardi e voci di persone smarrite, come si è al risveglio, quando si realizza che questo mondo ci è toccato e non esiste alternativa, si domandavano: «Chi cerca di ammazzarci in Africa e perchè?». La risposta soffia nel vento e spaventa, quale essa sia. Il presidente Clinton non l'ha data. Ha ammesso «è stato un attacco, noi eravamo il bersaglio». Ha definito «disumana» la violenza, promesso («non importa quanto tempo occorrerà»), che «i colpevoli saranno assicurati alla giustizia». Chi siano e perchè abbiano agito, non ha saputo dirlo al suo popolo, che scopre l'esistenza della globalizzazione anche nel terrorismo. Ripreso davanti all'ambasciata kenyota in macerie, uno dei feriti americani l'ha indicata dicendo: «Sembra il palazzo federale di Oklahoma City, solo che siamo qui, in Africa, e allora non si capisce». La globalizzazione dell'economia è quel fenomeno per cui una società con capitali giapponesi e base negli Stati Uniti fa realizzare i suoi prodotti, a costi di convenienza, in Thailandia e poi li rivende in Europa. La globalizzazione del terrorismo comporta che un nemico che sta in una lontana parte del mondo e vuole colpire l'America, compra ordigni ad alta tecnologia da trafficanti di un Paese lonta- no, ingaggia manodopera assassina di un altro Paese ancora e la manda in un paio di ambasciate africane, obiettivo conveniente perchè meno difeso, dimostrando di poter colpire quando vuole (con sincronia perfetta) e dove intende. L'invisibilità di questo nemico è quello che lo rende temibile. I volti che si sono alternati sugli schermi televisivi, dal reverendo Jackson all'esperto di terrorismo Larry Johnson, non sapevano contro chi puntare il dito. Tutto può essere spiegato oggi all'America, tranne chi e perchè. Dunque, niente si spiega. E molto si può ipotizzare. Non c'è una persona negli Stati Uniti che non abbia detto, scherzando: «E' stato il governo, per distrarre l'attenzione da Monica». Poi, spento il sorriso, sono venute le ipotesi realistiche, o quasi. Il più evocato è, ovviamente, l'Anticristo: Saddam Hussein. Un giorno rialza la testa contro l'Onu e il Satana a stelle e strisce e il mattino seguente due bombe esplodono dove sventola la bandiera americana. La Cnn ricorda le minacce irachene del '91, ma indizi che portino a Baghdad, nessuno. Se non è stato lui, il mandante, comunque lo si cerca nel mondo islamico: nella Jihad o in Libia. Viene diffuso su Internet il te- sto della «fatwa», la maledizione pubblicata su «Arabie» il 23 febbraio 1998, con l'esortazione «KILL AMERICANS EVERYWHERE», uccidete gli americani dovunque si trovino, ancorché si tratti di civili «poiché durante la guerra del Golfo essi non risparmiarono nessuno». In un crescendo inarrestabile si fa strada la teoria secondo cui il doppio attentato non è che una ulteriore tappa del percorso che condurrà, inevitabilmente, alla fine del mondo datata 2000 «processo avviato in maniera inesorabile il 5 marzo 1998, con le elezioni pakistane, i cui vincitori hanno poi deciso gli esperimenti nucleari». Per i profani dell'universo apocalittico, alla data del 5 marzo 1998 mancavano alla fine del millennio esattamente giorni 666 (il numero del Diavolo). Gli attentati in Africa non segnano la fine del mondo, ma quella di una tregua, sì. L'America riscopre di avere nemici in grado di colpirla, dopo un periodo di tranquillità. Jl professor Ernest Wilson dell'università del Maryland dichiara che: «Esistono numerosi focolai di opposizione alla politica estera americana e ognuno di questi può bruciare una miccia fino a farla esplodere». Non in Tanzania, non in Kenya, Paesi pacifici e aperti, meta di turisti. Quella è, come ognuno intuisce, una miccia che parte da lontano e scoppia dove le difese sono minori. Affiora nei commenti il senso di colpa per non aver protetto adeguatamente le ambasciate e i civili nei dintorni. Qualcuno parla di metal detector e sentinelle, ma tutti sanno che negli ultimi dieci anni sono stati apportati tagli alla sicurezza in situazioni non ritenute ad alto rischio e Kenya e Tanzania erano tra queste. E c'è una domanda inespressa che nessuno fa, ma che a ciascuno sorge spontanea: «Dove accadrà, la prossima volta?». Se qualcuno ha avuto la capacità di coordinare due attentati simultanei in ambasciate lontane, cosa potrà ancora fare, quando e dove, prima che gli agenti inviati da Clinton «assicurino i responsabili alla giustizia»? E' brutto svegliarsi da una notte di incubi onanistici con una porta che sbatte, una parete che crolla e nessuna risposta per le proprie paure, ma questo è quanto, Good morning. America. Lontano, molto oltre l'Africa, nel continente di Wall Street, a mezzogiorno, l'indice Dow Jones era salito di 97 punti. La gente guarda la tv e si chiede «Dove capiterà la prossima volta?»