Quel mafioso di Agamennone di Osvaldo Guerrieri

Quel mafioso di Agamennone il caso. a Vicenza una rivisitazione di Eschilo in dialetto siciliano Quel mafioso di Agamennone E Oreste in scena diventa collaboratore di giustizia LA tragedia greca come una tragedia di mafia. Vuol dire reimmergere nella calce viva le parole e i ritmi che un tempo raccontavano le sventure più luttuose di un popolo, o magari di un uomo, fosse questi un semidio come Prometeo, o un vulnerabile infelice come Edipo. Ma quale calce è oggi più viva e più caustica della mafia? Ecco allora Michele Di Martino affrontare ì'Orestea di Eschilo e volgerla in siciliano, cambiando la materia della trilogia in modo da farne lo specchio di un contesto spaventoso, nel quale il protomafioso Agamennone, tornato da imprese lucrose, viene ucciso secondo tradizione dalla moglie Clitemnestra che, in sua assenza, s'è incapricciata di Egisto e con lui vuol dare la scalata a un impero fondato sul crimine, sul ricatto, sulla sopraffazione travestita di onorabilità. Sapete quel che succede nel mito: gli amanti assassini sono a loro volta uccisi dal vendicatore Oreste, che viene prima perseguitato dalle Furie e poi consolato dalle Eumenidi, mentre, al suo fianco, vibra, odia, istiga, si strugge la sorella Elettra. Nou sapete, invece che, nella rielaborazione di Di Martino, Oreste incarna la figura del collaboratore di giustizia, indotto alla confessione e al ravvedimento da un prete che è la proiezione di don Pino Puglisi, il sacerdote di Brancaccio ucciso qualche anno fa per la sua ostinata crociata contro i mafiosi. Atridi s'intitola la riscrittura in versi (editore «La mongolfiera»): una parola per evocare immediatamente l'idea della famiglia, del clan. Il testo sarà messo in scena 1' 11 settembre al Teatro Olimpico di Vicenza per il Festival d'Autunno, con la regia di Maurizio Panici, le scene di Arnaldo Pomodoro e l'interpretazione, fra gli altri, di Pamela Villoresi e Carlo Alighiero. Non è la prima volta che Ì'Orestea di Eschilo viene non solo tradotta, ma addirittura riscrit- ta. A cominciare da Pier Paolo Pasolini, che vedeva nell'unica trilogia classica giunta fino a noi un meraviglioso banco di prova per sperimentare quel teatro di parola che teorizzava e dal quale era irriducibilmente sfidato. Negli Anni 80 Emilio Isgrò preparò la prima variazione in siciliano dei tre testi, per rappresentarla in tre anni alle Orestiadi di Gibellina. Il poeta delle cancellature, il profeta della poesia visiva, riscopriva con Eschilo il volume sonoro e psicologico della parola e la collegava alle esigenze civili di un Sud in attesa di cambiamento. «Bisogna ricominciare. / Ricostruire il Sud, il Grande Meridione». Erano parole di Pilade Oracolo, che sbarcava in Sicilia con le truppe americane e citava Salvemini, Togliatti, Sturzo. In un certo senso, Di Martino si è posto sulla scia di Isgrò. Anche lui guarda con apprensione al riscatto: non da una amara depressione civile e culturale, ma dal male dei mah, dalla piovra che rischia di soffocare «il più bel giardino» del Mediterraneo. Non c'è metafisica nel suo sguardo, c'è il potere del denaro che riesce a sovvertire e a depravare i legami di sangue e la pietà familiare. C'è l'empietà dei padri che uccidono i figli e dei figli che uccidono i padri, le mogli i mariti e viceversa. La saga familiare, dice Di Martino, appartiene a Eschilo, ma le sue parabole sono ancora da discutere, «con l'ulteriore bisogno di avvicinarle a noi e l'urgenza di una rilettura s'impone inevitabilmente come necessaria». Con lui il cerchio insanguinato della tragedia è espresso con un linguaggio nel quale si mescolano l'italiano e il siciliano arcaico; vive, come accadeva nel dramma antico, soltanto nei suoi terribili effetti; si dilata nell'aula del tribunale, fra giudici di buona volontà e nel crogiuolo delle intimidazioni. «La generazione nuova è arrivata», dice il giudice Igiea nella battuta finale. Si riferisce ai «giusti» e ai «coraggiosi» che sostano fuori del tribunale, gente «più informata e più colta», con il cui aiuto la battaglia impossibile può essere vinta. Questo giudice-donna, inventato su modelli facilmente riconoscibili, sembra ricalcare con le sue parole l'analisi di Gian Carlo Caselli, che pubblichiamo qui accanto, secondo il quale «per battere un avversario bisogna conoscerlo e bisogna combatterlo alla radice, cioè dentro di noi, nel nostro modo di pensare». Osvaldo Guerrieri Il giudice Gian Carlo Caselli Nella foto grande Pamela Villoresi e Michele Di Martino rispettivamente interprete e autore di «Atridi»

Luoghi citati: Gibellina, Sicilia, Vicenza