La donna che vìve con le persiane chiuse di Mario Baudino

La donna che vìve con le persiane chiuse La donna che vìve con le persiane chiuse «I raggi del sole mi stanno uccidendo, aiutatemi» «Ho una rara malattia della pelle, per uscire devo mettermi lo scafandro» LA STORIA L'OMBRA COME CONDANNA PISA DALL'INVIATO Proprio ora che sono quasi tutti a rosolarsi al sole, lei, chiusa in casa, con le persiane accostate, ti guarda in faccia e dice con voce ferma, senza malinconia: «Certo che in tutta la mia vita una vacanza io non la potrò fare mai. Ma chissà che a qualcuno non venga proprio adesso qualche dubbio...». Per esempio quello che l'idea di una malattia rarissima non è un cattivo pensiero da scrollarsi via al più presto. «Perché qualcuno ce l'ha, quella malattia». E deve essere curato e aiutato. Lei è Daniela Frieri, ha 36 anni, un marito, una bambina piccola, una casa e due genitori che hanno lasciato tutto per poterla assistere. Che cosa le manca? La possibilità di stare, come chiunque, esposta alla luce del giorno, al sole. Il sole la uccide, solo il buio o la penombra le consentono di sopravvivere. Il suo male si chiama Xeroderma Pigmentosum, deriva da un'alterazione del codice genetico e fa sì che la pelle non possa sopportare i raggi ultravioletti. Bruciature, escoriazione, «buchi» come dice Daniela, e poi naturalmente un rischio altissimo di tumori alla pelle, oltre a molte altre patologie. E' una malattia per cui, in buona sostanza, non ci sono cure. Si calcola che un italiano su un milione possa esserne affetto, e un americano su 250 mila. E' più diffusa nel Nordafrica, e questa è un'altra della sue maledizioni: sui mali dei Paesi poveri c'è molta meno ricerca che su quelli tipici dei Paesi ricchi. L'unica cura, per ora, è difendersi dalla luce con ogni mezzo possibile, e naturalmente controllare in modo costante le complicazioni. Per questo la casa di Daniela, nella campagna pisana, ha sempre le finestre chiuse. Lei ci viene incontro, in cortile, e sembra di ritorno da un alveare: abito a tuta, accollato e con le maniche lunghe, in testa una sorta di casco da apicultore, con una vetrina scura che copre il viso. «Ho dovuto inventarmelo io, per anni ho chiesto in giro se qualcuno sapeva costruire qualcosa di simile per me, ma senza risultato. Poi, dal dentista, ho visto un aggeggio simile su un'infermiera, e mi è venuta l'idea». Se ne va, bardata così, nelle rare uscite, in genere di prima mattina o sul far della sera. «Accompagno mia figlia Simona all'asilo, poi sulla strada di casa mi fermo al baretto dell'angolo, tanto per fare due chiacchiere». Sceglie la zona più in ombra e lì si toglie il casco. Poi risale in macchina, torna a casa per una lunga, lunghissima attesa. «Fino a sera, quando magari accompagno la bambina ai giardini pubblici. Ma a quell'ora non c'è più nessuno, siamo sole io e lei». E trovano la forza di sorridere. «Simona capisce tutto, sa tutto, ed anzi spesso è lei che mi ricorda che debbo coprirmi. Ogni tanto scherziamo: non sarà che nei negozi ci prendono per marziani? Le dico. E lei ride...». Per marziani no, ma per malviventi qualche volta. Può accadere, e non nei negozi. Daniela ha imparato in America, dove c'è una piccola associazione di persone che hanno famigliari colpiti da questo male, a mettere pellicole scure sui vetri dell'automobile. Ma succede che polizia o carabinieri, la prima volta che la vedono, si insospettiscono, facciano mille domande. Che ci fa un'auto tutta nera e impenetrabile allo sguardo sulle strade tra Pisa e Altopascio? La risposta è semplice, aiuta Daniela a vivere, ma a volte le risposte semplici sono quelle più difficili da dare. Sembrano incredibili. Soprattutto se il Dna ti ha giocato uno scherzo rarissimo, e della tua malattia nessuno ha mai sentito parlare, e la gente pensa che forse stai esagerando un po'. Ma Daniela non ha paura di «esagerare». Si impegna per far riconoscere i propri diritti, lotta contro le burocrazie e la sostanziale mancanza di una assistenza sanitaria pubblica, vuole che del suo male si parli il più possibile. Ha un sito su Internet, è andata spesso in televisione, ora un deputato della sua circoscrizione è riuscito a far passare in commissione alla Camera una risoluzione per riconoscere lo Xeroderma Pigmentosum come malattia invalidante e a promuovere la ricerca su di essa. «Se nasce un'altra persona nelle mie condizioni, non voglio che passi quel che ho passato io». Perché lei, il suo «misterioso» male, lo ha scoperto a poco a poco. I primi segni si sono manifestati quando aveva dieci anni, la diagnosi è arrivata a venti. E assieme ad essa, la clausura. Prima ha cercato di resistere in ogni modo. Faceva l'operaia in fabbrica, risparmiava sulle creme per la pelle «a protezione totale» che erano la sola «medicina», assieme agli integratori alimentari. Poi ha dovuto licenziarsi, anche se, rac¬ conta, «ho continuato per un po' in nero. Perché c'è bisogno di soldi». A poco a poco, ha rinunciato a (quasi) tutto. Non a sposarsi, con Giancarlo, che ha diviso con lei la grande sfida; avere una famiglia è stato un atto di coraggio e di fiducia in una vita guardata sempre di più dal solo lato notturno, dalla parte dell'ombra. Ora il suo sole è la bambina Simona (che sta benissimo), partorita con grande difficoltà, rischiando di morire. «Sembrava proprio che non potesse nascere, anche se i test erano positivi e una ricercatrice di Monza, una delle poche esperte italiane della mia malattia, mi aveva incoraggiata. Durante la gravidanza pensavo alla bambina, piangevo sempre. Poi dopo la sua nascita sono stata malissimo, insomma in quel periodo non me la sono goduta per niente. Ma mi sono detta, e ìo ho detto, vedrai. Vedrai che sei una viperina come la tu' mamma». Vedrai che ce la faremo, disse la mamma, ed è andata così. L'anno scorso sono stati in America, per una serie di cure e anche un «campeggio notturno», gestito e inventato da una famiglia che ha una bambina ammalata, in un posto vicino a New York con un nome difficile, Poughkeepsie. «E' un campeggio come tutti gli altri, ma si sta fuori quando è buio». Un campeggio dove i tempi sono rovesciati, un campeggio lunare. E di soli bambini. «Quando mi hanno vista sono stati tutti molto contenti, perché il fatto che ci fosse una mamma ammalata come loro era un segno di speranza, voleva dire che forse era possibile aspirare a una vita quasi normale». Scusi, ma perché solo bambini? Daniela Frieri ti guarda fisso negli occhi e senza apparenti emozioni, dice: «Perché in genere questi malati non arrivano ai venti anni». «E se anche io arrivassi a cento, di anni, avrei sempre l'impressione di aver vissuto a metà - aggiunge -. Non è vita, questa. Senza neppure la libertà di scegliere un vestito». Però lei tira avanti, e anzi ogni giorno ci scommette di nuovo, tra ospedali, analisi, cure per tumori della pelle, interventi ricostruttivi 'sull'epidermide bruciata dalla luce. «Mi sono sempre detta: non,può essere che io debba morire così... Guarire no, so che non è possibile. Però star meglio. Sa, ogni tanto vado un po' fuori di testa, poi mi ribello e tiro avanti». Contro il pensiero continuo della malattia, le difficiltà enormi di ogni giorno, il fatto che venga tenuta nascosta e non ci siano in Italia malati (tranne, finora, una signora milanese) che si facciano avanti, che prendano contatto con lei; e persino una certa incomprensione della gente. «Qualcuno pensa che io esageri, che forse non sto così male, che un buon dermatologo sistemerebbe tutto». Daniela, col suo casco da apicultore, cerca di non sentire. E sogna: «Ho un'amica cara, Susan, un'inglese che abita qui, ha sposato un italiano. Ogni tanto mi dice: facciamo una vacanza in Inghilterra, là c'è poco sole... Una vacanza, chissà. Quest'anno è stata dura per noi, mio marito ha perso il lavoro, mio padre ha dovuto abbandonare la sua attività per aiutarmi. Le cure sono care, persino le creme per proteggermi dal sole costano tanto. Io i soldi me li sono sudati, a star male in fabbrica, e se ne sono andati. Sarebbe bello andare al cinema, a teatro, uscire alla sera. In teoria potrei, in pratica no. Una vita in casa. C'è poco, per me, fuori». Fuori, nel sole, Simona gioca col suo gattino, che le è appena stato donato. Mario Baudino «L'unica vacanza l'ho fatta in America in un campeggio notturno, per malati come me» Sotto Daniela Fieri, 36 anni: ha scoperto di avere quella malattia a vent'anni. «Da allora vivo in clausura» [FOTO SILVI]

Persone citate: Daniela Fieri, Daniela Frieri, Foto Silvi