La partita persa dell'evasione in massa di Cesare Martinetti

La partita persa dell'evasione in massa La partita persa dell'evasione in massa Giocano a calcio perfuggire dal centro di accoglienza UNA SPERANZA FALLITA CALTANISETTA DAL NOSTRO INVIATO C'era il fratello di Weah, un Baggio ancora con la maglia della Juve, uno non identificato dell'Inter, un altro dell'Ajax. Nessuno della Francia campione del mondo? Nessuno. Ma un nazionale - under 21 - del Marocco. Che partita. Calcio d'inizio quando mancavano pochi minuti alle 11 di sera, campo in cemento e terra battuta, spettatori una trentina di poliziotti, illuminazione un po' così, tempo buono, persino un po' di brezza notturna, dopo i 45 gradi del giorno. Inizio di partita confuso, più rugby che football, due pacchetti di mischia che si spostavano semicompatti sul campo, il pallone che spariva nei dribbling dei virtuosi e tra gli stinchi degli altri. Gli spettatori che faticavano a decifrare il filo del gioco e capire chi attaccava e chi difendeva. E quell'impasto di umanità sudata, polvere e grida che si spostava sempre più in là, lontano da un campo senza righe né baricentro, a inseguire il pallone che rimbalzava in traiettorie di volta in volta più distanti, verso la rete di recinzione a cercare non un goal, ma una meta: la fuga. Ci sono voluti dieci minuti per capire che non si trattava di una partita di calcio, ma di un'evasione. Un remake polveroso e straccione di quel vecchio film con Sylvester Stallone e Pelè, «Escape to Victory», fuga per la vittoria. Là una squadra di detenuti «alleati» sfidava la nazionale del Terzo Reich nella Parigi occupata dai nazisti (1943). Una messinscena della Resistenza per organizzare un'evasione di massa, tra il primo e il secondo tempo. Evasione fallita perché l'orgoglio agonistico tratteneva gli alleati in campo per cercare il pareggio, più che la libertà. Qui, su questa spianata di caldo e di sole al Pian del lago di Caltanissetta che ora ci appare deserta, il terzo tentativo di fuga in massa per una ventina di disperati maghrebini che aspettano come una condanna il ritorno in patria che l'accordo tra Italia e Tunisia rende sempre più vicino. Un poliziotto ci racconta la fine della «partita» dell'altra sera: «I venti che fingevano di giocare si sono lanciati contro le reti e il filo spinato; altri ci tiravano le pietre e coprivano la fuga». Due sono arrivati fino ai bordi dello stadio, trecento metri più in là, ma sono stati ripresi da una volante. Due poliziotti sono stati feriti dalle pietre e guariranno in sette giorni. Il resto è polvere dell'arsa periferia siciliana, polvere di speranza e disillusione, di questo confronto a distanza, incomprensioni, povertà. Qui a Pian del lago c'erano i militari dell'operazione «Vespri siciliani», quelli mandati in Sicilia sei anni fa quando le truppe di Cosa Nostra sembrava dovessero mettere a ferro e fuoco l'isola e rispediti a casa ora che tacciono i kalashnikov mafiosi. Sono passati i lagunari e i granatieri di Sardegna, gli alpini e i fanti. Hanno lasciato murales dipinti sulle pareti di questi hangar di pietra dove adesso hanno infilato gli ultimi sbarcati a Lampedusa. Stanno comodi, novanta dove dormivano cento soldati. Centoventi in tutto, compresi dieci della Sierra Leone che presto avranno il permesso di soggiorno per ragioni «umanitarie» (nel loro paese c'è la guerra). Stanno bene, pasti caldi tre volte al giorno (il menù di ieri: pennette piccanti, uova sode, patate fritte, frutta), brandine e servizi igienici a sufficienza. Ma di qui vogliono scappare perché hanno capito che quando verranno i pullman sul piazzale, sarà scoccata l'ora di tornare a casa. E' una guerra di nervi, quella che ci racconta il prefetto di Caltanissetta, la signora Isabella Giannola. Controllarli senza che si sentano «detenuti», ma «ospiti». Una guerra contro il tempo perché se entro pochi giorni non ci sarà accordo di rimpatrio con la Tunisia, bisognerà lasciarli liberi accompagnati da un foglio di via che nessuno di loro rispetterà. Così è la legge. Ma per rimpatriarli bisognerà identificarli, nomi e cognomi. E non è facile. Questi, per esempio, hanno detto quasi tutti di essere marocchini. E invece, probabilmente, sono quasi tutti tunisini. Gli hanno fatto le foto e preso le impronte delle mani. Ma se Tunisi (o Rabat) non li riconosce come suoi cittadini, non potranno essere rispediti a casa. Molti hanno soldi (lire, dollari e franchi), telefonano in continuazione dalle tre cabine installate nel campo. Li tengono all'oscuro (niente giornali e tv) per tentare di evitare che capiscano l'ineluttabile destino dell'espulsione. Ma sanno tutto. E tentano di scappare. Ogni giorno. L'architetto Antonio Mameli è il presidente della Croce Rossa di Caltanissetta responsabile della gestione del «campo». Venti suoi volontari, soprattutto studenti (con la maglietta «No alle mine anti-uomo») mandano avanti la baracca. Mameli ha molti dubbi sul fatto che si riesca ad identificarli tutti in tempo. «Vogliamo mettere su qualche attività ricreativa: corsi di italiano, proiezione di film, piccoli lavori». Si capisce che l'operazione è difficile: «Non vogliono nemmeno che gli porti un televisore, ma io lo porterò lo stesso». Si capisce che la regia istituzionale vorrebbe far sembrare il passaggio il più breve e provvisorio possibile: via, via dall'Italia. Sono pronti a tutto, non capiscono perché li tengono qui, raccontano che i loro parenti, quando sono venuti, sono stati trattenuti tre giorni appena. Si feriscono con le lamette che hanno ingoiato (ed espulso) avvolte in carta stagnola. Si lanciano senza paura contro il filo spinato. C'è chi certamente fugge alla giustizia e alla polizia del suo Paese. Ce n'è uno che chiamano Tyson che ha più cicatrici che tatuaggi. Tenteranno di scappare ancora, con o senza pallone. E il fratello di Weah che farà? «E' un ragazzino che gli assomiglia un poco e che s'è giocato questa misera carta». Per ingannare gli italiani e illudere se stesso. Bello, essere il fratello di Weah per una notte. Cesare Martinetti «Si sono lanciati contro le reti e il filo spinato, altri tiravano pietre sugli agenti» Inventi hanno cercato di imitare l'episodio immortalato nel film «Fuga per Ja vittoria» Un momento dell'imbarco dei 143 clandestini pakistani

Persone citate: Antonio Mameli, Baggio, Isabella Giannola, Mameli, Pelè, Sylvester Stallone, Victory, Weah