Nella terra di nessuno tra profughi e cannoni

Nella terra di nessuno tra profughi e cannoni Nella terra di nessuno tra profughi e cannoni UN POPOLO ALLO SBANDO LIKOVAC IGLIAIA di rifugiati, molti di loro bambini, son discesi a fatica, dolorosamente lungo i sentieri di montagna, su carri, trattori o a piedi, fuggendo le forze del governo serbo, ma senza trovare quasi nessun rifugio dal caldo soffocante. Mentre i diplomatici stranieri meditavano sul come fermare l'offensiva senza impegnare la Nato in un'azione militare, le famiglie dei profughi arrancavano sotto il sole cocente, molte portando null'altro che qualche brocca d'acqua e qualche borsa di cibo. Quelli che viaggiavano sui carri erano invece talmente ammucchiati da lasciare poco spazio per le provviste. Pochi sembravano sapere dove andare, o come trovare rifugio. Così tante erano le persone in movimento martedì scorso, e così sparse in un terreno peraltro aspro, che secondo gli operatori umanitari internazionali non c'è modo di stimarne il numero, né di fornirgli cibo, acqua e medicine a sufficienza. Molti profughi albanesi sono fuggiti di fronte alla minaccia di un attacco da parte della polizia serba e dell'esercito iugoslavo, impegnati in un'offensiva tesa ad eliminare i bastioni dell'Esercito di liberazione del Kosovo (Uck) nelle aree occidentali e centrali della regione. I ribelli dicevano che avrebbero liberato la maggioranza etnica albanese dal giogo serbo. Ma le forze governativa, assai meglio equipaggiate, nell'ultima settimana hanno avuto la meglio. Ed i loro attacchi contro cittadine e villa?- continuano. Diplomatici e umanitari riferiscono che i serbi sono stati visti saccheggiare e bruciare le case nelle aree occupate. Fadil Ramaj è fuggito dal suo villaggio, Izbisa, alle due di notte di martedì, prendendo con sé tutti i parenti che è riuscito a trovare. I miliziani albanesi gli avevano detto che i serbi stavano per attaccare. «Avevamo 15 minuti di tempo - dice Ramaj -. Siamo andati di corsa a cercare i bambini e gli altri parenti. Ci siamo trovati in sessanta, e siamo scesi per le montagne per dieci ore di seguito». Dieci persone, a bordo di uno dei due soli carri, si sono nascosti a metà del cammino. Ramaj e gli altri si stanno ora riposando all'ombra di un filare di alberi e di fichi d'india, mentre sul sentiero davanti a loro si snoda una carovana di trattori, carri, animali ed un numero incalcolabile di altre famiglie. Dei cinquanta nel gruppo di Ramaj, una quarantina sono bambini, alcuni ancora in pigiama, e molti senza scarpe. Non hanno cibo, e solo poca acqua. «L'esercito ha circondato il villaggio due, o forse era tre giorni fa», dice Ramaj. «C'è sta¬ to un bombardamento, e io sapevo che se fossimo rimasti saremmo stati uccisi. Adesso stiamo qui a decidere cosa fare. La gente pensa che l'esercito attaccherà anche qui». Ramaj, che aveva un piccolo campo di cereali in un villaggio con meno di dieci famiglie estese, spiega: «Siamo scappati attraverso i campi che i nostri soldati dicevano sicuri. Ora però siamo lontani, e non sappiamo cosa fare». Ramaj smette di parlare, due persone si avvicinano, portando una bacinella colma di pomodori rossi, lunghi peperoni verdi coperti d'olio, tre pagnotte e due bottiglie di soda, oltre a latte per i bambini più piccoli. Sono i padroni del campo, Zenil Hajdini e sua figlia: «Non è molto, so che non è sufficiente per loro, ma la gente continua ad arrivare. Continueremo a dividere quel che abbiamo finché ce n'è, poi anche noi avremo fame. Siamo tutti albanesi». La famiglia di Ramaj sperava di andare a Mitrovica, dove secondo gli operatori umanitari negli ultimi tre giorni sono arrivati 30 mila profughi, trovando ospitalità presso famiglie di volontari. Ma a mezzogiorno i soldati dell'Uck attorno a Mitrovica hanno ricevuto ordine di mandar via i nuovi profughi: nella città non c'è più posto. Oltre 40 tra paesi e villaggi nella zona del Kosovo ad Ovest di Mitrovica apparivano martedì praticamente deserti. Le messi ancora nei campi, cavalli e mucche al pascolo. Ma la gente si è nascosta, o è fuggita in cerca di salvezza. In sei ore di viaggio in auto, abbiamo visto 4-5 mila persone vagare in cerca di rifugio. Alle tre del pomeriggio a Likovac, il quartier generale dei ribelli albanesi, gli unici movimenti visibili erano quelli di un pugno di soldati, quattro cani e tre uomini su un trattore che attraversava la polverosa piazza del villaggio. Un portavoce del comando ribelle, che non ha voluto rivelare il suo nome, dice che tutti gli ufficiali superiori sono in salvo, e che le loro forze stanno preparando un contrattacco. «Ci aspettavamo questo, e anche peggio - ha detto -. Abbiamo i nostri piani». Ma con il fuoco delle artiglierie vicinissimo, e con alte colonne di fumo nero che si alzano da tre villaggi vicini, la sua fiducia sembra alquanto fuori posto. In una postazione dei governativi vicino a Likovac un mezzo corazzato per trasporto truppe blu scuro punta la sua mitragliatrice pesante verso il fumo che sale dal villaggio di Lapusnik. Un ufficiale di polizia a torso nudo, vedendo un convoglio di truppe che si avvicina, apre un portello del corazzato e ne tira fuori bottiglie di birra vuote. Poi, flemmaticamente, fa loro segno di proseguire per Lapusnik. Ancora martedì i diplomatici stranieri dicevano di fare il possibile per fermare l'offensiva o impedire alle truppe serbe di attaccare i civili, ma aggiungevano che il presidente jugoslavo Slobodan Milosevic non risponderà alle pressioni diplomatiche, a meno di essere certo che un suo rifiuto scatenerà un attacco militare della Nato. «Far pressioni su Milosevic senza una minaccia militare è come cercare di giocare a baseball con un pipistrello al posto della palla: non funziona!» - ci ha detto un alto diplomatico occidentale. Secondo lui il dibattito tra gli ufficiali della Nato verte ora su come scegliere obiettivi da colpire con l'aeronautica, senza dover distruggere il sistema di difesa aereo della Jugoslavia. In realtà la Nato ha studiato per diversi mesi i diversi possibili attacchi contro la Jugoslavia, e 1' 11 giugno aveva anche annunciato di aver trovato alcune opzioni accettabili. Ma nonostante ciò, ancora martedì scorso, un funzionario dell'Alleanza ci ha detto che le opzioni sono ancora discusse all'interno della Nato, e che i piani finali non sono ancora pronti. Mike O'Connor Copyright «The New York Times» e per l'Italia «La Stampa» Un uomo rifocilla i fuggiaschi: poi avrò fame anch'io, ma siamo tutti albanesi Fotografi e giornalisti si coprono il volto nel luogo in cui sono stati trovati i cadaveri di diversi albanesi nei pressi di Orahovac

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