Tra i disperati di Agrigento di Cesare Martinetti

Tra i disperati di Agrigento Tra i disperati di Agrigento «Clandestini trattati come detenuti» I CENTRI CHE SCOPPIANO AGRIGENTO DAL NOSTRO INVIATO Se ne vanno in 65, con i pullman rossi della Sciolti di Catania. Salutano con la mano. Nessuno grida, nessuno fa scenate. Prima di salire sui pullman gli hanno fatto togliere la cintura e le scarpe per controllare che non avessero lamette nascoste o chissaché. Se ne va anche Said, il paraplegico, sulla carrozzina e con suo fratello Hamid. Via dal campo 2 di Agrigento, quello ribattezzato dei «cattivi», dove sono finiti i più «caldi» della rivolta di Lampedusa di otto giorni fa. Li avevano messi in containers di latta sotto il sole a 42 gradi; sono finiti in questo capannone di cemento e lamiera, dove c'era più spazio, ma condizioni di vita più o meno simili. L'emergenza si stempera, aspettando che Italia e Tunisia trovino la via dell'intesa per il rimpatrio. Difficile, tesa, combattuta anche con colpi non convenzionali, come il sequestro di un peschereccio di Mazara. Qui ne restano centocinquanta e alle 7 di sera tutto appare placido. Un altro centinaio dovrebbe partire oggi, per Roma. A gruppi li vediamo sciamare tranquillamente verso le autocisterne per una breve doccia sotto il tubo di gomma o verso i wc chimici. Non si può entrare. Un poliziotto sorveglia l'ingresso, un cancello elettrico rosso scorrevole. Non c'è segno di tensione. Giornata nuvolosa, grazie a Dio, 28-30 gradi invece dei soliti 40-42. Il questore annuncia che incominceranno i lavori per attrezzare meglio il capannone: nessuno si illude, i clandestini continueranno ad arrivare sulle coste «di confine» della provincia, Lampedusa e non solo. Qui, sotto il capannone, bisognerà ospitarne altri. L'importante è che non avvenga come in questa settimana d'inferno: nessun volontario, nessuno che spieghi ai disperati del mare quali sono i loro diritti e le loro possibilità, che gli dica che le regole sono cambiate, in Italia. I clandestini saranno rimpatriati a meno che fallisca l'intesa tra i governi. La lotta è contro il tempo. Il 13 agosto scade il mese per i primi arrivati: se entro quel giorno non ci sarà l'accordo per i rimpatri, avranno tutti il foglio di via che significa dieci giorni di tempo per lasciare l'Italia. Nessuno se ne andrà, sciameranno per il Paese, cercheranno come dicono in molti - di raggiungere Francia e Germania. Ma con il marchio addosso di «clandestini» che le regole comunitarie di Schengen estenderanno ai Paesi dell'Unione. Si stempera la tensione, qui ad Agrigento, punto alto dell'impreparazione con cui si è affrontata la nuova fase nella politica dell'immigrazione. Giovanna Marano, della Cgil siciliana, accusa: «Perché qui ad Agrigento non ha funzionato nulla, come invece accade a Termini Imerese o a Catania e persino a Trapani? La Provincia ha impianti sportivi e scolastici che potevano essere usati per accogliere questa gente. Nulla. Anche le organizzazioni del volontariato sono arrivate tardi, Croce Rossa e Caritas che pure ricevono finanziamenti regionali. E non parliamo delle istituzioni di Agrigento che hanno soltanto enfatizzato il rischio di malattie e di epidemie». Perché? Non si sa. Di fatto tra i containers sotto il sole di Lampedusa e questo capannone industriale alla periferia della città dei templi s'è innescato un corto circuito umano e politico. Dice la signora Marano che i disperati arrivati dalla Tunisia sono stati trattati come detenuti, ma detenuti non sono. Anzi, peggio che detenuti. Bisognava essere qui martedì mattina quando la Cgil ha ottenuto di visitare il capannone, esso stesso paradosso sicilia- no, fantasma di cemento e lamiera di uno «sviluppo industriale» che si annuncia come una beffa nella palazzina tutta specchi dove dovrebbe aver sede il centro direzionale dell'area. Ma la maggior parte dei capannoni sono vuoti, gli altri assediati da scheletri metallici arrugginiti di macchinari e impalcature abbandonate insieme al sogno dello sviluppo industriale. Nei dintorni c'è il bar «Number One» che sembra un saloon e il bowling «Efebo» popolato di siculissimi perdigiorno, pallide caricature di mister Lebowski. Il campo numero 2 è annunciato dal sinistro presagio della «Sicilforni», forni a legna. Ma si capisce che il vero forno è quello là, ora cancellato alla vista dall'esterno da pudiche tendine parasole verdi con cui i poliziotti hanno ricoperto la cinta metallica. Qui hanno vissuto in duecentocinquanta, su materassini di gomma buttati sulla polvere perché lo «sviluppo industriale» non è arrivato nemmeno a pavimentare il capannone, i pochi wc chimici presto intasati. Tutti stretti in un gomito a gomito che con l'incertezza del futuro ha reso invivibile il presente. «Povera gente - dice Giovanna Marano -, ingannata: nessuno sapeva che le regole sono cambiate in Italia e che sarebbero stati rispediti al loro Paese. Non avevano nemmeno uno spazio per pregare, che per loro è molto importante. Non avevano sigarette e si sa che i maghrebini fumano molto...» Durante la visita ci sono state delle risse non appena è spuntato un pacchetto di sigarette. Si aspetta l'intesa tra governi. Ai disperati di Agrigento verrà spiegato che saranno i «primi della lista» quando ci saranno le immigrazioni controllate. Si aspetta che la Tunisia se li riprenda: mancano otto giorni. Pochissimi. Cesare Martinetti Caldo e polvere «Non c'era nemmeno lo spazio per pregare» In alto uno dei centri di accoglienza. A destra uno dei clandestini iracheni picchiato dagli scafisti perché si era rifiutato di pagare il supplemento

Persone citate: Giovanna Marano, Marano, Said