Chi spedisce morte ha paura del dialogo

Chi spedisce morte ha paura del dialogo DON CIOTTI Chi spedisce morte ha paura del dialogo SERVE a poco dire «violenza vile, folle, criminale». Di fronte a essa gli aggettivi sono superflui e fors'anche non servono molto gli appelli. Quando qualcuno sceglie la «ragione della forza», con determinazione e per calcolo politico, quando qualcuno strumentalizza cinicamente le emozioni di tante persone e le morti di due giovani, serve a poco tentare di spiegargli, invece, la forza della ragione, cioè della parola e del confronto. Chi opera per una strategia di violenza non si può convincere, ma solo vincere e sconfiggere. E il modo migliore per farlo è quello di non confondere bersaglio, di non generalizzare, di non regalare pretesti e alleati a chi si muove nell'ombra e nel torbido. Il modo peggiore, invece, è quello di dare precipitosamente per scontata la paternità di tali atti, di pensare che il mondo dei centri sociali sia un tutto uniforme e organizzato, che siano omogenee le loro culture, posizioni, comportamenti e riferimenti. In questo senso, la dissociazione esperita venuta da alcuni centri sociali torinesi è molto importante. Come, del resto, da tempo lo sono state le scelte di dialogo, confronto, impegno sociale e politico costruttivo perseguite da tempo, senza rinunciare alla propria identità e radicalità, e pur con limiti e fatica, dai centri sociali «storici» del Veneto e dal «Leoncavallo» di Milano. Forse, queste bombe sono indirizzate più a tentare di frenare queste posizioni che rifiutano di chiudersi e di essere chiuse in un «ghetto», a cercare di fermare quejs^e realtà in movimento che a intimidire i diretti destinatari delle buste . «esplosive. Del resto, anche la scelta di Bue personalità quali Pasquale Cavaliere e, ancor più, Giuliano Pisapia, sembrano indicare che chi spedisce le bombe abbia più paura del dialogo, del confronto politico, del ragionamento che non della repressione. Queste bombe dovrebbero, innanzitutto, spingere ad aggiornare molte delle analisi che si sono fatte in questi mesi, a seguito degli arresti di Torino e della tragica morte di «Sole» e «Baleno». Allora, si era detto e scritto che questi giovani, un po' troppo indistintamente qualificati «squatter», rifiutavano ogni forma di comunicazione con il resto della società, si rinserravano nel silenzio visto come forma e come strumento di difesa e preservazione della propria identità e diversità. Un'analisi in parte vera, pur se talvolta utilizzata come abbi per rinunciare a capire, prima, oltre e nonostante quel silenzio, che in ogni caso va rispettato. Rinunciare a priori allo sforzo di capire l'altro, gli altri, il «diverso», consente di non porre i interrogativi a se stessi. Interroi gativi che possono risultare an¬ che scomodi e impegnativi, quale quello di chiedersi, ad esempio, se non vi siano responsahnità e vuoti nelle politiche sociali, se anche l'indifferenza o addirittura l'ostilità con cui alcuni guardano a questa fascia di giovani, a volte sempheemente per il colore dei loro capelli o per i loro gusti musicali, non corrisponda anch'essa a un silenzio della città, altrettanto cupo e ripiegato, altrettanto incapace di coltivare speranze che, al di là di tutto, sono comuni perché riguardano il futuro dell'uomo e della sua società. Diversamente, la violenza non è silenzio. E' un linguaggio: estremo, ingiusto e tremendo, ma pur sempre comunicazione. E' forse presto per avere sufficienti certezze su chi ne siano gli autori e sui loro intenti. Ma è pur vero che gli effetti sono in larga misura indipendenti dagU atti stessi, perché innescano spirali, reazioni e controreazioni che, dopo poco, perdono ogni relazione con ciò che le aveva innescate. I «messaggi» oggettivamente lanciati da queste bombe sono molteplici e rivolti a più interlocutori: di intimidazione rivolta ai giudici e ai giornalisti; di dissuasione nei confronti di chi persegue una pobtica di confronto e attenzione verso i centri sociali, le problematiche giovanili e le realtà socialmente più debob o marginali; di scontro verso quei centri sociali desiderosi di uscire dall'isolamento sociale e politico e disponibili a comportamenti responsabUi e costruttivi; di ricatto riguardo la prossima stagionejjQlitiea^ sindacale, .e istitu? zionale in cui; a partire-da settembre, si condenseranno diverse difficili scadenze. Se questi sono, al di là degli autori e delle loro intenzioni, i «messaggi» e i rischi, le risposte di responsabUità richiedono di fare un passo più in là delle solite e futili divisioni tra fautori del dialogo a oltranza e partigiani dello scontro, tra «buonisti» e «rigoristi». Queste categorie non significano nulla e, soprattutto, non aiutano. Se quelli sono obiettivamente i rischi, e io credo che 10 siano, significa che ognuno, al suo livello di responsabilità e nel suo ruolo sociale o professionale, deve dare il proprio contributo: chi continuando a fare il proprio lavoro di giudice e giornalista con competenza, elli continuando a sollecitare politiche di inclusione e dialogo, chi continuando 11 proprio percorso di cambiamento e confronto costruttivo con le istituzioni, chi evitando di drammatizzare il dibattito politico e, più- nelle legittime e rispettive posizioni, aiutando il Paese a trovare strade di maggiore stabilità istituzionale e di più alta giustizia sociale. Don Luigi Ciotti >tti |

Persone citate: Don Luigi Ciotti, Giuliano Pisapia, Leoncavallo, Pasquale Cavaliere

Luoghi citati: Milano, Torino, Veneto