Così il «tabloid» creò Lady Diana, diva e martire

Così il «tabloid» creò Lady Diana, diva e martire Chi era veramente la principessa del Galles? In due libri le contraddizioni di un mito popolare Così il «tabloid» creò Lady Diana, diva e martire Una donna con molte identità, predestinata a un destino infelice JIDANZATA illibata e sposa ripudiata, «eroina delle commesse» e avversaria della monarchia, «mater dolorosa», diva capricciosa, amante sfasciafamiglie, principessa del popolo, una sfrontata Cenerentola e la vittima dei fotoreporter: nessuna donna della nostra epoca si è trovata ad interpretare, da viva e da morta, così tanti ruoli come Lady Diana, la cui vita si arrestò un anno fa, la sera del 31 agosto, contro il pilone d'un tunnel parigino. Nella settimana successiva, come si ricorderà, centinaia di milioni di uomini e donne, in tutto il mondo, furono partecipi di un'emozione collettiva senza precedenti: si è calcolato che la trasmissione televisiva dei funerali, il 6 settembre, da Londra, abbia registrato un'audience record superiore a due miliardi di spettatori, mentre le vendite dei tabloid popolari salivano alle stelle. Il culto di Diana appare come il più clamoroso e forse misterioso fenomeno di massa d'un tempo scandito dall'agenda dei media. A questo culto sono dedicati due libri freschi di stampa, opera di due sociologi italiani: Il popolo di Lady Diana di Paolo Ceri, del- l'Università La Sapienza («I grilli» di Marsilio) e La principessa nel paese dei mass media di Paolo Mancini dell'Università di Perugia (Editori Pduniti). L'immagine di Diana Spencer che esce da queste pagine è quella del simbolo d'un conflitto incombente fra tradizione e modernità, che riguarda in pri¬ mis il mondo britannico. Rispetto allo stile dell'aristocrazia inglese e delle tradizioni monarchiche, essa si presenta come una donna che rifiuta di reprimere le proprie emozioni, come vorrebbero le regole dell'etichetta. E' l'interprete consapevole d'una rivendicazione individualistica, contro l'oppressio¬ ne delle norme sociali. La principessa del Galles, spiega Ceri, è diventata l'emblema dei mutamenti in corso nella società britannica tra il vecchio mondo delle classi, dell'ufficialità, della deferenza e dell'autocontrollo e il nuovo mondo degli individui, dell'intimità, del consenso e dell'autenticità. Dietro queste contrapposizioni si può anche intravedere, come scrive Mancini riprendendo un editoriale del Times, un conflitto generazionale: la sfortunata principessa appartiene alla generazione di Ali you need is love, non ha nulla che fare con la cultura prebellica, è cresciuta in una società in cui ciò che conta è l'amore, come dice la canzone dei Beatles. Ciò significa un diverso atteggiamento nei confronti della vita, nel quale si può riconoscere anche un'idea di cosmopolitismo contro il nazionalismo. Ma chi era Lady Diana? Dai due libri escono due identità differenti della giovane donna che il 30 luglio 1981 aveva sposato Carlo d'Inghilterra. La Diana di Ceri è una persona predestinata a un destino infelice: «Mi sono sentita sempre diversa da tutti gli altri, estranea - come dichiarò ad Andrew Morton, autore della biografia Diana. La sua vera storia -. Ho sempre avuto dentro di me questa cosa di essere diversa». Il libro di Ceri ricorda i traumi di un'infanzia segnata dalla separazione dei genitori: «I sentimenti che ne derivano sono di esclusione». Un'esclusione vissuta in modo contraddittorio: come una colpa ma anche come una forma di conservazione difensiva dell'io. Per cui la storia di Diana Spencer, dai tradimenti del marito ai suoi tradimenti, dall'altezzosità della corte alle sue trasgressioni, è un continuo tentativo «di farsi conoscere per quello che è realmente». E' questa identità controversa la ragione dell'enorme popolarità. Il caso Diana era insito nel suo Dna. Invece per Mancini la «principessa del popolo» è una moderna Medea, calata in questo tragico ruolo dal sistema dei media. Il suo libro parte dal caso per analizzare come televisione, quotidiani, periodici, Internet possano trasformare la realtà in mitologia, possano creare un personaggio artificiale. Anche Diana è posseduta, co¬ me l'eroina di Euripide, da un'ira terribile: «I reali: una famiglia di lebbrosi», come titolava il Corriere della Sera del 6 gennaio 1994, riprendendo l'articolo di un tabloid londinese. Il destino assegnatole, al di là della sua reale identità, è quello di rappresentare, in forme diverse, un conflitto classico: tra persona e ruolo, tra privato e pubblico. «E questo scontro avveniva su di un'arena pubblica scrive Mancini - in cui erano coinvolte, anche soltanto come lettori partigiani, milioni di persone». Ma questo scenario era stato creato dal mix fra informazione e spettacolo che caratterizza ai nostri tempi i mezzi di comunicazione di massa. Così la morte di Lady Diana si rifrange in un doppio specchio scuro: è l'eroina che interpreta una sensibilità collettiva improntata a valori come l'uguaglianza, la fenrniinihtà, l'emotività, ma è anche la metafora di un conformismo che non riesce più a distinguere tra realtà e spettacolo, tra persona e replicante, tra sentimenti e pettegolezzi, tra le nostre emozioni e le suggestioni dei tabloid. Alberto Papuzzi // suo culto appare come il più clamoroso e forse misterioso fenomeno di massa d'un tempo scandito dall'agenda dei media Lady Diana ha simboleggiato i mutamenti in corso nella società britannica, tra l'ufficialità delle vecchie classi e il nuovo mondo degli individui e dell'intimità Qui a destra Elton John, che ha cantato ai funerali di Lady D. Col successo della canzone si è misurata la popolarità della principessa

Luoghi citati: Galles, Londra