«La diplomazia è inutile senza la forza» di Alain Finkielkraut

«La diplomazia è inutile senza la forza» «La diplomazia è inutile senza la forza» Finkielkraut accusa il colpevole oblio dell'Occidente INTERVENTO LA RIABBIA DEL FILOSOFO Alain Finkielkraut, filosofo, è commentatore di politica estera; Antoine Garapon, ma——gistrato; è-preaittente-del Comitato Kosovo ILJ^^yembre 1988 l'alf ora presidente della Lega comunista della Serbia, Slobodan Milosevic, dichiarava davanti a una folla entusiasta: «Ogni nazione ha un amore che scalda eternamente il suo cuore. Per la Serbia è il Kosovo». Gli atti non tardarono a seguire queste parole amorose. Dopo aver soppresso l'autonomia della provincia, Milosevic mette in campo una politica ufficiale di segregazione. Gii albanesi vengono massicciamente licenziati dal settore pubblico, dagli ospedali e dalle imprese. Nelle rare scuole in cui sono ammessi i bambini di tutte le etnie, vengono installati dei bagni separati per i serbi e gli albanesi. Al fine di prevenire quel che gli intellettuali dell'Accademia delle Scienze di Belgrado chiamano «il genocidio della cultura serba», a Pristina, la capitale del Kosovo, l'Istituto di albanologia viene chiuso e le sale di lettura della biblioteca nazionale vengono assegnate ad una scuola ortodossa serba. Spaventati da tanto amore, la Slovenia e le altre repubbliche della Jugoslavia intraprendono il cammino della secessione. Durante la guerra che segue, gli albanesi del Kosovo, che son riusciti a mettere in piedi una vera società parallela, scelgono, sotto la direzione di Ibrahim Rugova, la via della non violenza. E ricevono per questo calorose felicitazioni dalla comunità internazionale. Felicitazioni ma non ricompense. La moderazione di cui hanno saputo dar prova gli frutta solo il privilegio di essere dimenticati negli accordi di Dayton. E Milosevic, fine manovratore tanto quanto grande amatore, finisce di screditare Rugova presso i suoi conpatrioti, compromettendolo in lunghi quanto infruttuosi negoziati. Da allora, quel che doveva accadere, accade. Lo scenario annunciato da tutti i protagonisti della crisi jugoslava si sviluppa inesorabilmente. Perché è proprio Milosevic che si è preso la responsabilità di scatenare un conflitto armato, lanciando le prime operazioni della polizia speciale contro i villaggi della provincia di Drenica alla fine del mese di febbraio di quest'anno. Fatto, questo, che spinse l'Esercito di liberazio¬ ne del Kosovo (Uck), un'organizzazione dall'esistenza fino ad allora incerta, ad entrare in scena. L'obiettivo di Belgrado è, in realtà, duplice: schiacciare questo esercito, debolmente equipaggiato ed assai poco sperimentato, ma soprattutto realizzare il vecchio sogno di svuotare la regione della sua componente etnica albanese. Quali pericolosi terroristi potevano infatti nascondersi mai, dietro i quattordici fucilati sulla soglia della loro casa a Junik, il 28 luglio? I quindicimila abitanti di Orahovac son dovuti fuggire, e duecentosessantamila kosovari, cioè oltre il dieci per cento della popolazione della regione, sono stati gettati sulle strade e si preparano ad un lungo inverno. Secondo le stime, sono più di diecimila le abitazioni e gli edifici agricoli distrutti, da che sono iniziate le operazioni di «puli¬ zia». Il dramma della Jugoslavia volge ormai al termine. La guerra, iniziata nel Kosovo, termina nel Kosovo. La cosiddetta «polizia» jugoslava affronta i «separatisti» albanesi. Malgrado le fattorie incendiate, i villaggi rasi al suolo, i massacri di civili e l'esodo sempre più massiccio delle popolazioni terrorizzate, malgrado lo scatenarsi e il ripetersi della crudeltà più estrema, l'opinione pubblica internazionale, distratta, conta i punti, mentre il Gruppo di contatto (composto da Stati Uniti, Russia, Germania, Francia, Italia e Gran Bretagna), preoccupato ma poco incline ad onorare i propri impegni, lancia ai due campi in lotta dei consigli a far prova di moderazione, guardandosi bene però dal mettere in pratica i suoi diversi, solenni avvertimenti. Colpiti dall'oblio per aver rifiutato di prendere le armi, gli albanesi del Kosovo rischiano ora di essere punti per essere stati costretti ad imbracciarle. Le strettoie della geo-politica non permettono forse di rendere giustizia a tutte le loro rivendicazioni. Ma ciò che avrebbe dovuto insegnarci l'interminabile guerra di Bosnia, è che l'opzione diplomatica e l'opzione militare non sono in contraddizione tra di loro. Anzi: la seconda è la condizione necessaria della prima. Non vi sarà compromesso possibile fin quando Milosevic resterà convinto di poter imporre con la forza la legge del suo inestinguibile amore. Certo, gli albanesi del Kosovo formano una nazione etnicamente omogenea, una cosa assai meno conforme allo spirito dei tempi rispetto agli United colours of Benetton o alla nazionale francese di calcio. Ma è questa una ragione sufficiente per abbandonarli, senza colpo ferire, alla stretta mortale della Serbia? Alain Finkielkraut e Antoine Garapon Copyright «Le Monde» e per l'Italia «La Stampa» «Gli albanesi del Kosovo sono una etnia omogenea forse non è di moda ma basta per lasciarli uccidere?»