Lenin ordinò: voglio vivo lo zar di Domenico Quirico

Lenin ordinò: voglio vivo lo zar rivelazioni. Nel luglio del' 17 il Soviet supremo inviò sei emissari a Ekaterinburg con un compito speciale Lenin ordinò: voglio vivo lo zar La missione fallì per un ritardo del treno SAN PIETROBURGO DAL NOSTRO INVIATO Alba del diciassette luglio 1917: la stazione ferroviaria di Ekaterinburg, negli Urali, è una cupa babele. Migliaia di persone sciamano sulle rotaie con un visibilio di cenci, ceste e fagotti, danno l'assalto a vagoni su cui già sono messi a manciate soldati tristi svogliati e sudici, in fuga verso Occidente. Si sente distintamente un robusto gracchiare di cannoni alla periferia di questa ricca capitale russa dell'oro e del platino. Le truppe del «capo supremo della Siberia» ammiraglio Aleksander Vasil'evic Kolcak avanzano. E' un'annata scombinata e raccogliticcia, principi georgiani e guerrieri tartari, ufficiali della guardia e studenti russi, predoni a fianco degli idealisti; in coda carriaggi stipati di baronesse, giornalisti, generali che cercano reparti che non esistono più; borghesi dalla faccia pallida e gonfia. Eppure quel manipolo di uomini erranti nella steppa, spronati dalla volontà ferrea di un patriota russo onesto e sincero (una rarità nelle armate bianche) sta per conquistare la città. Di corsa, spinti da ordini secchi, sei uomini infarinati di polvere scivolano giù dall'ultimo treno passato tra gli artigli delle armate bianche. Risalgono il largo viale Voznesenskji, superano senza degnarlo di uno sguardo un edificio in pietra un po' misterioso circondato da una rozza recinzione di legno che appartiene al mercante Ipatiev, si lasciano alle spalle i grandi palazzi bianchi, costruiti dai ricchi mercanti di oro e pellicce che ancora dondolano nella luce incerta del mattino. Superano il consolato inglese e arrivano a quelle che fino a poco prima era la sede del governatorato e ora ospita il soviet regionale bolscevico degli Urali. Spingono via le guardie che cercano di fermarli sventolando un lasciapassare con i fiammanti sigilli del comitato esecutivo dei soviet di Russia. Hanno fretta i sei uomini e so¬ no già terribilmente in ritardo per una missione che può cambiare il destino della rivoluzione. Arrivano infine davanti ai dirigenti del soviet, facce di cuoio di vecchi bolscevichi, visi grinzosi di operai poveri, gente che per anni ha stampato la faccia dello zar in milioni di esemplari lavorando in quella che era la zecca di Russia: «In nome del governo rivoluzionario abbiamo l'ordine di prendere in consegna l'ex imperatore e la sua famiglia e di riportarlo a Mosca, consegnatecelo». I commissari reagiscono con lunghi istanti di contrito silenzio: «Mi dispiace compagni, siete arrivati tardi. Nicola Romanov, il succhiasangue e i suoi complici sono stati giustiziati poche ore fa». A San Pietroburgo turisti e russi fanno la fila davanti alla tomba dell'ultimo sovrano per respirare la fragranza di una Russia ormai scomparsa e contrapporla ai saturnali dell'età eltsiniana. Intanto quel giallo infinito che è la strage dei Romanov spalanca un altro capitolo, infittisce i suoi misteri. La figlia di uno degli uomini che parteciparono a quella missione a Ekaterinburg ha raccontato per la prima volta l'estremo tentativo di salvare sua maestà Nicola II imperatore di russia, re di Polonia, granduca di Finlandia, Twer, Rostov, Novgorod, Siberia, Astrakan e Kasan, despota della Russia Grande Piccola e Bianca: ebbene l'ultimo autocrate morì perché, nel caos rivoluzionario... i treni erano in ritardo. Margarita Ivanovna Manankova, è una vecchia signora di professione restauratrice. Nel marzo del 1953 era sola nella piccola dacia fuori Mosca con il padre Ivan. Stalin era morto, Beria, l'implacabile becchino del grande terrore, era stato appena fucilato. Tempi nuovi sembravano incrinare le superfici pietrificate della Russia bolscevica. «Mio padre mi pregò di custodire rigoro- samente tutto quello che stava per dirmi - racconta -, di non rivelarlo a nessuno, neppure agli altri famigliari, soprattutto a mia sorella che aveva sposato un ex deportato nei gulag». Ivan Manankov era di guardia allo Smolny, un istituto per signorine nobili che la rivoluzione aveva trasformato nel quartier generale boscevico, quando all'inizio di luglio del 1918 fu convocato dal comandante. Era stato aggregato a una pattuglia incaricata di una missione segreta: andare a Ekaterinburg, farsi consegnare lo zar e la famiglia e riportarli a San Pietroburgo. Tutto era già stato organizzato. Avrebbero trovato una carrozza speciale e una scorta che li attendeva per il ritorno. La Russia rivoluzionaria in quei giorni era schiantata, frastagliata, sforbiciata, sbriciolata. I bianchi avanzavano su tutti i fronti, gli inglesi erano sbarcati a Arcangelo, la legione cecoslovacca imperversava come un uragano. Dzerzinskji, il creatore della Ceka, scriveva alla moglie: «E' in corso una danza di vita e di morte, guerra civile vuol dire davvero uccidi per non essere ucciso». Lenin, disperato, aveva deciso di usare la famiglia imperiale come ostaggio, barattarla con una tregua o, nel peggiore dei casi, con un lasciapassare. I sei uomini partirono. Ma ad ogni stazione il convoglio veniva bloccato da folle intontite dalla paura, contadini affamati assaltavano i vagoni, mancava il carbone, bisognava requisire altre locomotive per sostituire quelle rotte, le armate bianche costringevano a lunghe deviazioni. Eppure mancarono il loro obiettivo per sole quattro, cinque ore. Furibondi si scagliarono contro Jankel Jurosvskij, l'agente della Ceka che aveva diretto la strage. Si sfiorò una sparatoria. Poi Jurovskij, per provare che non stava mentendo, li portò alla casa Ipatiev. I corpi giacevano ancora nella stanza, gli abiti della zarina e delle figlie stracciati dalla furia dei killer che avevano cercato invano i gioielli nascosti nelle imbottiture. Per terra sangue a fiotti che aveva formato «pozze spesse come pezzi di fegato». Jurovskij, urlando, ordinò di caricare i cadaveri avvolti in coperte su un camion che partì a gran velocità. Ma non c'era tempo per discutere. Bisognava ripartire. I sei, facendosi largo con le armi spianate, salirono su un treno e ripresero il viaggio verso San Pietroburgo. Quando presentarono il rapporto nessuno li rimproverò; fu ordinato di cancellare dalla memoria quanto avevano visto. Una commissione di storici russi che sta lavorando sul racconto cerca di chiaiire perché Lenin organizzò questa missione e poi lasciò che partisse l'ordine di uccidere lo zar. Nel suo spregiudicato machiavellismo cospiratorio il leader bolscevico probabilmente cercò di tenersi aperte due strade: la missione di Ivan poteva comunque servire come prova che era stato fatto il possibile per salvare lo zar. La rivoluzione, in fondo, è uno sporco affare, non la si può fare con i guanti bianchi. Domenico Quirico la figlia di uno dei protagonisti racconta per la prima volta l'estremo tentativo di salvare Nicola II do mne. ridi osi er llo o di ri di elfiov fit di pateri di mQui accanto la famiglia imperiale la figlia diracconta ptentativo d Qui accanto la famiglia imperiale