Chiudere lo scandalo non importa come di Aldo Rizzo

Chiudere lo scandalo non importa come OSSEKMMTORIO Chiudere lo scandalo non importa come America e il mondo aspettano il 17 agosto, data della testimonianza di Clinton al Gran Giurì, per sapere come andrà a finire questa incredibile storia di un Presidente degli Stati Uniti messo in crisi da un'avventura con un'impiegata avventizia della Casa Bianca. Le ipotesi possibili sono tre. La prima è che Clinton riesca a convincere non tanto i giurati, quanto l'opinione pubblica, della sua buona fede, chiamiamola così. Cioè egli potrà dire che sì, ha mentito sull'esistenza della «love story», ma per motivi umanamente comprensibili, che chiede scusa, ecc. Ci sarebbero strascichi polemici, ma non importanti. La seconda ipotesi è che, tra la testimonianza del Presidente e quella della giovane Lewinsky, e altri elementi a disposizione del procuratore Starr, emergano fatti gravi, come un tentativo di aggirare la giustizia degli Stati Uniti. In tal caso, si potrebbe arrivare all'«impeachment» e alle dimissioni di Clinton. La terza e ultima ipotesi è che non succeda nulla di tutto questo, che il Presidente non riesca a meritarsi una sostanziale assoluzione, ma che neppure affiorino motivi per decisioni gravi, e che egli resti in carica, ma con un'autorità dimezzata. Gli amici di Clinton, in America e fuori, sostengono che l'intera vicenda è in realtà un attacco politico dei repubblicani, per i quali simpatizza il procuratore Starr. I repubblicani sarebbero gelosi dei successi del leader democratico all'interno e all'estero e timorosi che, come Reagan con Bush nel 1988, egli trasmetta nel 2000 al vicepresidente Gore altri quattro, se non otto, anni di potere. Ma è vero solo in parte, per due ragioni: primo, perché in questa vicenda c'è anche un aspetto di moralità privata e pubblica (i troppi adulteri, le piccole o grandi bugie); secondo, perché è da dimostrare che un Gore succeduto a Clinton prematuramente e che quindi affronta le prossime elezioni da Presidente in carica sia più battibile di un Gore candidato alla pari con gli altri. Più verosimile è che i repubblicani intendano approfittare di questo scandalo semiprivato e semipubblico per tenere I Clinton in sella ma sotto tiro, I così da avere, alla scadenza naturale del suo mandato, argomenti per un cambio radicale di «leadership». La terza ipotesi di cui dicevo prima. Ebbene, proprio quest'ipotesi è la più negativa, sia per gli interessi generali dell'America, sia per quelli di noi alleati. Come ha osservato Edward Luttwak in un articolo-saggio pubblicato dall'«Espresso», un Presidente ha molta autorità (perché è espressione diretta della maggioranza complessiva degli elettori americani), ma ha poteri relativamente limitati. I suoi principali atti di politica interna ed estera devono avere l'approvazione del Congresso, e questa è tanto più complicata quanto minore è l'autorità personale del capo della Casa Bianca. E infatti già ora c'è uno stallo in vari programmi sociali e si avvertono incertezze nella gestione di crisi internazionali come il Medio Oriente o il Kosovo. Luttwak, che non credo sia un tifoso di Clinton, arriva a parlare di vuoto di potere, e questo è eccessivo, ma non c'è dubbio che anche semplici esitazioni, se prolungate, possano risultare determinanti per gli sviluppi di crisi gravi, condizionando i comportamenti degli attori «locali» (per dire, da Netanyahu a Milosevic). Ed ecco la necessità che, se non il 17 agosto, poco dopo, il caso si chiuda, in un modo o in un altro. Se Clinton riuscirà a essere convincente, tanto meglio. A parte le sue persino patetiche intemperanze personali, egli è stato ed è, politicamente, un buon Presidente, insieme lungimirante e pragmatico. Se improbabilmente non dovesse farcela, una sua uscita anticipata non sarebbe una tragedia. Ciò che è necessario è che la superpotenza, i cui atti influenzano l'economia e la politica planetarie, riacquisti al più presto una credibile stabilità. Aldo Rizzo aoj

Luoghi citati: America, Kosovo, Medio Oriente, Stati Uniti