Patty La saggezza dei sogni

Patty La saggezza dei sogni L'orchestra di bordo. Incontro con la cantante simbolo della sfida al conformismo Patty La saggezza dei sogni yX MILANO M \ UANDO ero ragazzo, B ■ alla fine degli Anni / i ■ Sessanta, Patty Pravo I era già il simbolo della ■ sfida al conformismo li ■ e della trasgressione W & allegra in nome della \ m voglia di essere se stessi, del desiderio di sognare, di cercare, di ■ perdersi, di rischiare. Così la vedevo e la sentivo da lontano, in una Romagna più vuota e polverosa di quella di oggi, dove i pochi audaci che portavano i capelli lunghi si ritrovavano nel negozio di musica del «Maestro» a suonare a sbafo le canzoni dei Beatles con gli strumenti in prova, dove chi aveva una 500 era un signore, e chi esibiva una Mini-Minor poteva vivere di prepotenze. La sentivano così anche gli altri ragazzi della mia generazione. Ricordo che al liceo scientifico noi maschietti ci accanivamo con crudeltà cretina contro una compagna di scuola bruttina e dimessa che portava ancora i calzettoni quando le altre sfoggiavano calze e reggicalze, e teneva sempre gli occhi sui libri: In quarta riapparve, all'inizio dell'anno scolastico, completamente trasformata: aveva i capelli lunghi con dei magnifici boccoli, gli occhi sicuri e birichini abbelliti da un trucco leggero, e una minigonna che metteva in evidenza le gambe dritte e magre. Noi, i tormentatori di ieri, rimanemmo senza parole, finché qualcuno esclamò: «E' la Patty, è Patty Pravo!». Da allora il suo nome fu Patty perché come la vera Patty Pravo non aveva più paura e voleva vivere a modo suo. Non capita molte volte nella vita di incontrare il mito degli anni della giovinezza, di vedere da vicino il volto ammirato tante volte da una distanza infinita sui giornali o sulle copertine dei dischi. Mi ero preparato con diligenza; avevo riascoltato molte volte le sue prime canzoni, letto articoli su di lei, sfogliato raccolte di fotografie, chiacchierato a lungo con un suo amico, che la conosceva dai tempi degli studi al Conservatorio di Venezia. Eppure temevo di fare la figura del fan ridicolo. Devo dire che ci sono andato vicino: appena entrato nella hall del Grand Hotel et de Milan riconobbi subito i capelli biondi e la figura esile di Pattyi Pravo che parlava tranquillamente con un suo collaboratore dal viso cordiale. Preso dal panico, fuggii verso le toilettes al piano inferiore, anche perché l'accordo era che avrei dovuto incontrare prima la signora Monica della Sony e temevo di violare chissà quali regole d'etichetta. Ripreso animo, mi presento, e con mia sorpresa riesco perfino a parlare e a simulare una certa tranquillità, grazie alla cordialità serena di Patty Pravo che addirittura mi toghe d'impaccio quando fallisco miseramente la pur semplice prova di far funzionare un registratore portatile e saluta con una risata allegra la sua vit- J toria sul riottoso mostriciattolo tecnologico. Non le piace parlare di ricordi e di anni lontani. «Io non vado bene con la memoria. Il passato non lo guardo proprio. Non fa parte della mia natura. Se lei mi chiede delle cose devo far fatica a ricordare. Nella vita non mi viene spontaneo il ricordo; io vivo il presente e il futuro. Penso al presente, domani è già passato; domani forse ci sarà forse non ci sarà. Sono sempre stata così. E' proprio la mia natura». La incuriosisce però il fatto che io lavori sul passato, su testi e autori lontani, che cerchi di riportare in vita il significato di pagine scritte addirittura secoli fa. Sa che insegno Filosofia Politica e che scrivo su Machiavelli. «Ma cosa aveva fatto Machiavelli? - mi chiede -, perché le piace?». «Perché era un burlone e sapeva ridere della vita, degli uomini e di se stesso, e perché credeva che nella vita è meglio fare e poi pentirsi che non fare e poi pentirsi», rispondo. Ma non dobbiamo parlare di Machiavelli, bensì di Ragazzo triste, che è del '66. La invito a ripensare alle parole della canzone: «Ragazzo triste come me ah ah / che sogni sempre come me ah ah / non c'è nessuno che ti aspetta mai, / perché non sanno come sei. / Ragazzo triste sono uguale a te: / a volte piango e non so perché. / Altri son soli come me eh eh, / ma un giorno spero cambierà». Le faccio notare che sembra quasi che lei si identificasse con un ragazzo triste, che lo capisse. «Beh, certo, anche allora c'era il problema della solitudine. A quindici-sedici anni, i ragazzi si sentono abbandonati e vivono uno stato di malessere che è proprio degli anni della giovinezza. Boncompagni aveva scritto quella canzone per me; era un po' il mio ritratto. Mi è sempre piaciuto sta¬ re da sola, fin da quando ero ragazzina, infatti mi dicevano che ero molto orso». Io però non ero triste, mi racconta con voce calma. «Triste proprio no. Sono stata cresciuta dai nonni; anzi, soprattutto dalla nonna. Non mi sono mai sentita oppressa dalla famiglia. Allora c'era questa voglia di uscire a tutti i costi da casa. Loredana Berte ha detto addirittura che con il mio modo di essere ho messo le chiavi in mano a intere generazioni. Io però non me ne sarei mai andata di casa; ci stavo troppo bene. In quegli anni di cui stiamo parlando, poi, mi sono divertita come una bestia». Mi dice che di Ragazzo triste sentiva e sente come sue soprattutto le parole che parlano di speranza: «Altri son soli come me eh eh, / ma un giorno spero cambierà. / Nessuno può star solo, / non deve stare solo. / Quando si è giovani così / dobbiamo stare insieme, / parlare tra di noi, / scoprire insieme il mondo che ci apparterrà». Mi fa ricordare che quegli anni erano soprattutto anni di speranza e di utopia. Certe cose si sentono, mi spiega. (Allora pensavamo davvero che avremmo avuto il mondo in mano. Non volevamo far soldi; avere una Vespetta per andare da Roma ad Ostia era già un trionfo. Adesso i ragazzi non credono che il mondo apparterrà a loro; pensano alla carriera, al danaro, alle carte di credito, ai computers (che, per carità, vanno benissimo)». Stare insieme: ma dove? A me vengono in mente le osterie, i caffè di periferia, le parrocchie, i movimenti politi» ci. Ma no, mi correg|| ge, «niente osterie; fa l'odore del vino e > della birra non mi piace. Ci trovavamo nei bar, e poi io avevo la mia banda. Fuori dal Piper c'erano due bande, e io appartenevo naturalmente a quella più...», e fa con la mano un cenno più eloquente di qualsiasi parola. Anzi, prosegue, «io di bande ne avevo già fondate tre al Conservatorio, tre bande di cui io ero ovviamente il capo». Già, le bande; come ho fatto a dimenticarlo? Le osterie e i movimenti politici vennero dopo. Non avevamo né le Triumph Bonneville degli inglesi, né le Harley-Davidson degli Hell's Angels, ma anche in Romagna si andava in giro per bande, soprattutto d'estate. Io avevo una Morini 98 ce, verde. Eravamo dieci, venti, a volte trenta; si girava senza una meta preci¬ sa. Ricordo ancora «Ledvy», il capo, con la sua Gilera Saturno 500, che solo lui riusciva a mettere in moto, a spinte. Certo, ho pensato mestamente fra me e me, aver avuto come capo Patty Pravo sarebbe stata tutta un'altra cosa. Ma allora lei aveva la passione della moto, le chiedo. «Ma certo! Io ho avuto prima una Laverda 350 poi una Guzzi 750 Special, nera. Guidavo tutta vestita di pelle». A quelle parole, io, guzzista da sempre, sentii gli occhi inondarsi di lacrime di commozione. «Ma osservai con un filo di voce -, la Guzzi 750 era a quei tempi pesantissima, e poi nere non le facevano...». Appunto, «me la sono fatta fare apposta. Ci andavamo sul Passo del Furio, e a girare in Piazza del Popolo: gniiiawn gniiiawn gniiiawn, come dei deficienti». Quel «gniiiawn gniiiawn» mi inso¬ spettì. In un primo momento pensai che la memoria la tradisse, poi che evidentemente ricordava più il rumore delle Yamaha e delle Suzuki che il classico «tu-tu-tu-tu» delle Guzzi. La moto voleva dire vento sul viso, spazi ampi, libertà. Di libertà parlava Qui e là, la canzone che Patty Pravo lancia nel 1967: «Qui e là io amo la libertà e nessuno me la toglierà mai». Una libertà tutta individuale che vuol dire soprattutto essere se stessi e avere il coraggio di rifiutare i ruoli imposti dagli altri; una libertà che è in primo luogo vivere alla propria maniera: My way, come la celebre canzone di Frank Sinatra che Patty Pravo traduce e comincia a cantare a partire dal 1970 con una voce che farebbe venire i brividi a un sasso. Vale la pena di ricordare quelle parole perché lì c'è probabilmente l'anima di Patty Pravo, anzi di Nicoletta: «Io sono qui a dirvi cose scritte da un altro, però, per darle a voi io le traduco, le porto dentro, così, non per vantarmi nessuno può rimproverarmi perché io sono io, a modo mio». La libertà evoca l'America, dove Patty Pravo ha vissuto a lungo, per ritrovare se stessa e fuggire la volgarità dilagante nell'Italia degli Anni Ottanta. Io ci sono andato dieci anni fa per insegnare a Princeton. Scopriamo che tutti e due apprezziamo quella disponibilità a vivere i rapporti fra le persone in modo diretto e schietto, e quel senso di possibilità e di novità che si sentono nelle città americane. Ma la voglia di libertà era anche nello spirito di quegli anni, quando i giovani volevano soprattutto vivere a modo loro. Quando Einaudi tradusse nel 1970 L'uomo a una dimensione di Herbert Marcuse, se ne vendettero in Italia, in un solo anno, 150 mila copie. E c'erano le donne, che cominciavano a mettere in questione ruoli e catene antiche. La bambola con quel «No ragazzo no, tu non mi metterai fra le dieci bambole che non ti piacciono più», che è del 1968, vende nove milioni di copie. «In tutto il mondo - mi spiega Patty Pravo -, sono state soprat¬ tutto le donne a comprare quel disco. Le donne mi volevano bene, e mi vogliono ancora bene perché vorrebbero essere come me». Ma il femminismo, che proprio in quegli anni cominciava a circolare, non le interessava, e non le è mai interessato. Non aveva tempo, e non ne aveva bisogno. Mi fa notare che lei è cresciuta a Venezia, e «a Venezia le donne sono sempre state libere, hanno sempre avuto potere». Mentre l'ascolto, mi viene in niente la Venezia del Cinquecento e del Seicento, dove gli eretici, i libertini e i liberi pensatori di tutta Europa trovavano rifugio dalle grinfie dell'intolleranza religiosa e le sue bellissime dame davano vita a salotti raffinati dove la discussione colta andava a braccetto con la trasgressione. In fatto di situazioni scabrose e di trasgressioni Patty Pravo non scherzava. Chi non ricorda Pazza idea (1973): «Pazza idea / di far l'amore con lui / pensando di stare ancora insieme a te!/Folle folle idea / di averti qui / mentre chiudo gli occhi / e sono tua...». E ancora di più Pensiero stupendo, la più pravesca delle sue canzoni, del 1978: «E tu / e noi/e lei/fra noi / vorrei / vorrei / e lei adesso sa che vorrei / le mani / le sue / e poi un'altra volta noi due». Per le anime prave c'è l'inferno, o almeno così dicono. Ma la cosa non la tocca neppure. Le mie trasgressioni, mi dice, non nascevano né dalla rabbia né dalla noia, ma dalla gioia e dal gioco. Così come non sembra proprio che l'abbiano mai toccata le insinuazioni e le malignità di chi vuole graffiare soprattutto chi vince. «Certo non faceva piacere leggere sui giornali che ero rovinata, che ero drogata, che ero morta - mi dice -, ma non ho mai risposto. Sapevo che col tempo la gente avrebbe capito». Una vera lezione di saggezza. Patty Pravo la saggia, questa è stata davvero una bella scoperta. Saggia, ma ancora con la curiosità di cercare la bellezza in nuovi mari, nuovi deserti, in una piantina, in nuovi sogni, come negli Ami Sessanta e Settanta, quando eravamo tutti più disposti a sognare. Le racconto che nella mia ultima lezione a Princeton ho detto ai miei studenti che la loro è una delle poche generazioni che non ha più utopie sociali o politiche e che questo li metteva sì al riparo dalle delusioni, ma poteva rinsecchire le loro vite. «Ma bisogna dare sogni!» mi risponde. «Se non si fa sognare le persone, che cosa si fa? Io ho cercato di farlo con le mie canzoni e con il mio modo di essere, ma non mi sono mai sentita un simbolo, perché vivere come un simbolo vuol dire rinunciare a vivere "a modo mio"». Maurizio Viroli «Le donne mi volevano bene, e mi vogliono ancora bene perché vorrebbero essere come me» «Le mie trasgressioni non nascevano né dalla rabbia né dalla noia, ma dalla gioia e dal gioco» MILANO ero ragazzo, degli Anni Patty Pravo simbolo della conformismo rasgressione nome della i essere se l desiderio di di cercare, di di rischiare. vedevo e la n una Romarosa di quelhi audaci che nghi si ritroi musica del e a sbafo le con gli strue chi aveva e, e chi esibioteva vivere nche gli altri erazione. Riientifico noi amo con cru una compana e dimessa i calzettoni iavano calze a sempre gli arta riapparno scolastico, ormata: ave dei magnificuri e birichicco leggero, e metteva in itte e magre. di ieri, rima finché qualPatty, è Patty suo nome fu a vera Patty paura e vole. olte nella vito degli anni edere da vicio tante volte nita sui giore dei dischi. on diligenza; olte volte le tto articoli su te di fotograungo con un onosceva dai Conservatorio fare la figura o dire che ci ppena entrad Hotel et de bito i capelli sile di Pattyi anquillamenratore dal vil panico, fugal piano infel'accordo era ontrare prima lla Sony e issà quali presento, riesco perulare una razie na di diritaccio emno J Patty La saggedei sogniNon le piace parlare di ricordi e di anni lontani. «Io non vado bene con la memoria. Il passato non lo guardo proprio. Non fa parte della mia natura. Se lei mi chiede delle cose devo far fatica a ricordare. Nella vita non mi viene spontaneo il ricordo; io vivo il presente e il futuro. Penso al presente, domani è già passato; domani forse ci sarà forse non ci sarà. Sono sempre sta ì E' ri l i rispondo. Ma non dobbiamo parlare di Machiavelli, bensì di Ragazzo triste, che è del '66. La invito a ripensare alle parole della canzone: «Ragazzo triste come me ah ah / che sogni sempre come me ah ah / non c'è nessuno che ti aspetta mai, / perché non sanno come sei. / Ragazzo triste sono uguale a te: / a vol i lli alto a destra Gianni Boncompagni, autore della canzone «Ragazzo triste» re da sola, fin da quando ero ragazzina, infatti mi dicevano che ero molto orso». Io però non ero triste, mi rac l Ti c'era questa voglia di uscire a tutti i costi da casa. Loredana Berte ha detto addirittura che con il mio modo di essere ho messo le chiavi in mano a intere generazioni. Io però non me ne sarei mai andata di casa; ci stavo troppo bene. In quegli anni di cui stiamo parlando, poi, mi sono divertita come una bestia». Mi dice che di Ragazzo triste sentiva e sente come sue soprattutto le parole che parlano di speranza: «Altri son soli come me eh eh, / ma un giorno spero cambierà. / Nessuno può star solo, / non deve stare solo. / Quando si è giovani così / dobbiamo stare insieme, / parlare tra di noi, / scoprire insieme il mondo che ci apparterrà». Mi fa ricordare che quegli anni erano soprattutto anni di speranza e di utopia. Certe cose si sentono, mi spiega. (Allora pensavamo davvero che avremmo avuto il mondo in mano. Non volevamo far soldi; avere una Vespetta per andare da Roma ad Ostia era già un trionfo. Adesso i ragazzi non credono che il mondo apparterrà a loro; pensano alla carriera, al danaro, alle carte di credito, ai computers (che, per carità, vanno benissimo)». Stare insieme: ma dove? A me vengono in mente le osterie, i caffè di periferia, le parrocchie, i movimenti politi» ci. Ma no, mi correg|| ge, «niente osterie; fa l'odore del vino e > della birra non mi piace. Ci trovavamo nei bar, e poi io avevo la mia banda. Fuori dal Piper c'erano due bande, e io appartenevo naturalmente a quella più...», e fa con la mano un cenno più eloquente di lii l Ai lli alto a destra Gianni Boncompagni, autore della canzone «Ragazzo triste» Doimmi Andrea Camillerì proporrà una nuova indagine del Commissario Cecé Coltura