Lewis Carroll, un timido a caccia di Lolite

Lewis Carroll, un timido a caccia di Lolite Fotografìe e cimeli di vita: così Londra e Oxford celebrano l'autore di «Alice» a cent'anni dalla morte Lewis Carroll, un timido a caccia di Lolite i|T OXFORD m\ 0, non doveva piacere w molto l'insegnamento al 1 giovane reverendo CharkJLi les Lutwigde Dodgson, figlio e fratello e nipote di ima pletora interminabile di pastori, che al Christ Church College giunse da un presbiterio ricco di ben undici figli, e praticamente non ne fuggì più per tutta l'esistenza, protetto da quel talismano imprendibile d'una carica di docente, che lo costrinse a vivere nella bambagia rassicurante del celibato e a frequentare le piccole perverse Alici di quella temibile tribù di scuri deans efellows, assatanati dalla carriera. Lui preferiva occultare il suo popolarissimo pseudonimo di Lewis Carroll (che oggi lo fa celebrare in tutta l'Inghilterra in occasione del centenario della sua morte) come un gatto che ha fatto pipì in salotto: non che se ne vergognasse, ma probabilmente preferiva, anticipando Pessoa, lasciar galleggiare più aereo e inafferrabile questo suo doppio di scrittura: e quando uno sventurato americano si permise di inviare al college una missiva intestata: Lewis Carroll, Christ Church, la rimandò sdegnato al mittente, come se quel personaggio non esistesse. Anche se aveva scelto come materia di insegnamento non il catechismo ma la sua adorata matematica, la fragile sua fibra (era caratterialmente timido, tendenzialmente balbuziente, sordo da un orecchio, le immagmi d'epoca e i ritratti ce lo mostrano gentile e sognante come una fanciulla) resistette ben poco a contatto con classi che il suo stesso diario descrive «chiassose e distratte» e poi: «Che lavoro ingrato costringere della gente a imparare cose che non vuol conoscere!». E quando già ha deciso di diventare, modestamente, aiuto-bibliotecario, ecco una scoperta che lo salva, che lo redime da quella «noia eterna»: la fotografia. Ora, alla National Portrait Gallery di Londra fa un po' emozione vedere (sino all'11 ottobre) quella voluminosa scatolona funebre e mobile con cui lui inseguiva le sue prede e poi tutto quell'apparato leggermente sinistro di botticini, vernici, negativi al collodio, che corrispondeva al «trallalà chimico» del trattamento d'epoca. E che commozione avere sotto gli occhi proprio i suoi esemplari rigati, oppure gli album di famiglia delle immagini di routine di cugini e parenti, che ci dimostrano quanto lui avesse elaborato il suo stile (e tale è lo choc che la fotografia importa nella sua vita, che lui vorrebbe applicare quella tecnica dello «sviluppo chimico» anche al romanzo. E forse qualcosa di simile gli riuscirà, con i mots-valises, le parole-inscatolate o i personaggi, che si allungano e stirano come disegni animati infrangibili). Ma non è vero, come sostiene il suo biografo Gattégno, che lui non volesse che fotografare persone (certo, lentigrado paparazzo, amava anche inseguire le celebrità, come un figlio della regina Vittoria o il poeta Tennyson, che perseguitò persino in villeggiatura), mentre invece irritato si rifiutò di fare il ritratto al cardinal Newman che non accettò di posare nel suo studio. Qui ci sono anche «scatti» di natura, giardini e ricordi del suo presbiterio, vuoti di persona, che come per miracolo si riempiono poi progressivamente di cicalecci alla Jane Austen e conversazioni all'ora del tè, sempre omaggiando l'iconografia piramidale del gruppo preraffaellita (li fotografò un po' tutti, i pittori dell'epoca: da Rossetti a Hunt, a Millais, a Ruskin, di profilo tagliente come un temperino, uno dei suoi più fidati confidenti a proposito delle illustrazioni dei suoi libri), di cui molti in mostra, da Tenniel a Mervyn Peake a Salvador Dali. E certo oggi farebbe scandalo e litri di telegiornale, quella sua propulsione nemmeno troppo mascherata alla pedofilia fotografica. La sua era una vera liturgia della conquista (che culminava poi con l'orgasmo della lastra): si presentava in spiaggia o in treno con le tasche gonfie di doni e giocattoli, dapprima se¬ duceva gl'innocenti fratellini poi subito trascurati, infine intavolava le prime conversazioni con le sue piccole prede,, senza dimenticare le mamme più o meno vigili, che avrebbe invitato ad un tè. Ma non sopportava insinuazioni o perplessità: se non otteneva subito fiducia e per di più il diritto a «poterle riempire di baci» e a fotografarle anche «sans hdbillement» (così scriveva, precauzionalmente e galantemente in francese) subito si inalberava e fuggiva, sdegnato. Ed è impressionante vedere che pose adulte e innocentemente perverse, che sguardi subito vecchi e melanconici, assumevano quelle torbide Lolite, cedevoli come manichini, travestite da piccole mendicanti, scarmigliate ed arreso alla sua meticolosa libido al collodio. Anche se quella era l'epoca dei tableaux vivants teatrali, lui le voleva sempre mobili come felini, spettinate come dopo una corsa colpevole, le gambe nude come per un guado metafisico. Ma appena invecchiavano, «come i ruscelli quando si gettano nel fiume», il suo desiderio si spegneva. E mentre a Oxford una loquace guida ti porta, tra cimeli e manoscritti, a visitare i luoghi in cui il reverendo immaginò la sua Alice, tra i ritratti ringhiosi di genitori dediti al sanscrito e lugubri vetrate che portano le tracce del «viaggio al di là dello specchio» ti domandi davvero dove Dodgson-Carroll trovasse il coraggio di perpetrare quei chiaroscurati «delitti», nemmeno esorcizzati dal paravento dei giochi di parole delle sue discese nel Wonderland. Marco Vallerà Oltre alle bambine amava ritrarre poeti pittori e altre celebrità Emoziona il laboratorio con botticini e vernici per lo sviluppo chimico Una delle novanta stampe che illustrarono la prima edizione di «Alice nel paese delle meraviglie» incastro di scatole narrative firmate da Lewis Carroll Il reverendo Dodgson in arte Lewis Carroll Lo scrittore era appassionato di fotografìa Anzi fu la fotografìa a salvarlo dal mesto destino del professore di matematica che non amava insegnare

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