COLOANE il patriarca delle tempeste

COLOANE il patriarca delle tempeste i sagoi di bordo. Mari australi, balene, Patagonia: lo scrittore cileno ricorda un secolo di avventura COLOANE il patriarca delle tempeste HROMA A un tatuaggio sull'avambraccio sinistro, con il teschio e le tibie incrociate dei pirati, e un anello indiano al dito che, racconta, è composto da cinque striscioline di diversi metalli. La più piccola, d'oro, emerge al centro disegnando il profilo di Ganesh, il dio indù col capo d'elefante. «E' il protettore dei marinai», dice Francisco Coloane, e se lo bacia con trasporto. Ma Ganesh, il figlio di Shiva cui fu sostituita la testa dopo una improvvida decapitazione da parte del padre, è anche e soprattutto il dio della scrittura: un simbolo perfetto per Coloane, che nella sua lunga vita è stato marinaio e forse avventuriero, guardiano di «estancias» ed esploratore polare, instancabile viaggiatore e, soprattutto, scrittore. Ha dato voce alla Patagonia, ai mari australi, alle tempeste e alle cacce disperate, ai vascelli fantasma e ai sogni di uomini che hanno sfidato la natura nei suoi aspetti più tremendi e sublimi. A 89 anni è un grande patriarca della letteratura i sudamericana, scoperto da noi solo di recente grazie a Luis Sepùlveda, che per Coloane ha sempre avuto una venerazione totale, e in Francia grazie ad Alvaro Mutis. Due autori profondamente diversi dall'altro, ma con un debito comune nei suoi confronti, hanno permesso all'Europa di colmare una lunga distrazione. Coloane è insieme a Neruda «lo» scrittore del secolo per il Cile. Il suo nome è stato avvicinato a quelli di Conrad e di Melville: e dei due ha certo il respiro potente, ma con in più una sorta di inavvertibile fatalismo. E' uno scrittore di destini. E si proclama comunista, in quel modo romantico e un po' enfatico, «cubano», tipico dei sudamericani. Durante il regime dei colonnelli la polizia di Pinochet non osò toccarlo, un po' come Hitler non aveva permesso che si torcesse un capello a Junger. Lasciò il suo Paese, e se ne andò in India', perché formazioni paramilatari lo avevano minacciato, ma solo per un anno. Neppure i colonnelli cileni osarono sfidare il cantore della Terra del Fuoco, l'uomo che un giorno del 1941 era arrivato a Santiago - lo ricorda Sepùlveda - dalla punta estrema del continente gettando un fascio di fogli sul tavolo della Casa della Letteratura, e dicendo semplicemente: io vengo dalia fine del mondo. Intendeva il confine, ma aprendo i suoi libri si respira un'atmosfera quasi da apocalisse: non solo nel senso della convulsione finale, del conflagrare degli elementi, ma in quello proprio della parola. Apocalisse, disvelamento, rivelazione. Nei racconti e nei romanzi di Coloane la forza degli elementi, la violenza e l'incanto della natura si rivelano nel loro momento di massima tensione. Lui non ha dovuto andare alla ricerca di questa fine del mondo: c'è nato, nel 1910. In un centro sperduto sull'Oceano Pacifico, Quemchi, fra colonizzatori avventurosi, cercatori d'oro, mercanti, pescatori, indios. «Avevo anche uno zio di Rimini - ci racconta - che mi insegnò a catturare gli uccelli con la pania. Poi la zia li cuoceva con la polenta». Ma quel ricordo d'Europa, anzi di Nord-Est italiano, era già contaminato con nuove, ben più selvagge mitologie. «Lo zio dava la caccia ai "pudu", piccoli cervi senza corna, e poi noi tutti li spellavamo appendendoli agli alberi. Colava il sangue. E lui mi diceva: passalo sulle ginocchia, così diventerai veloce come i cervi». Aveva nostalgia d'Italia, lo zio. Teneva in casa i ritratti dei Savoia. «E poi venne colpito da una strana malattia, che si manifestava attraverso accessi convulsi di riso. Sì, è morto ridendo. Ma la gente del paese decise che la causa di tutto erano stati i troppi uccelli mangiati in vita». Perché gli uccelli ridono, aggiunge Coloane. Non forse al modo dei personaggi, ad esempio, di un racconto tratto dal suo terzo libro tradotto in italiano, I balenieri di Quintay, da poco in libreria per Guanda (che ha pubblicato anche Terra del fuoco e Capo Horn). Prigionieri in una caverna marina battuta dalle onde, tra un branco di foche intente pigramente ad allattare i piccoli - e farsi ammazzare - questi cacciatori ridono perché temono di dover morire, ma anche perché forse hanno trovato una via di scampo. C'è un'ambiguità nel loro riso, quella che sta tra il senso d'insensatezza della vita e l'insensatezza di voler comunque tirare avanti. L'ambiguità della fine del mondo. Francisco Coloane, scrittore I di tempeste, sa che la distanza tra il farcela o l'essere sconfitti è minima, impalpabile. Come quella tra orrore e incanto. E il suo oceano «finale» lo segue anche a Roma, proprio in piazza del Pantheon, come a dire nel centro del mondo. «Ieri notte ho visto qui, sotto la luna, tre enormi gabbiani che volteggiavano, come se cercassero qualcosa, un pesce, una preda, nella fontana. Non riuscivano a scendere, continuavano a stare alti ma come attratti irresistibilmente dal suolo, con le loro ali distese, che saranno state lunghe un metro. E la gente guardava, a bocca aperta... Uno spettacolo meraviglioso, una storia. La scriverò nel libro di viaggi che sto preparando». Un bagliore di Capo Horn nella fontana del Pantheon. Da vero nomade, Coloane porta con sé il suo mondo senza farsene accecare. Cosi, alla sua bell'età, affronta con la moglie Eliana il lungo tragitto da Santiago del Cile a Roma, una città che lo affascnia. Gli piace anche il Papa, che ha già visto in Mozambico. «Un uomo coraggioso, paragonabile solo con Fidel Castro». E ride, forse perché sa che è una provocazione, da vecchio comunista anzi «anarchico» e «comunista», come gli piace definirsi. E in fondo anche da vecchio pagano? I miti cui dà voce nei suoi libri hanno molto di religioso ma non in senso cristiano. «No, non ho mai avuto preclusioni, il mio Dio è quello della Bibbia latino-americana: l'infinito presente in ogni essere umano. E poi mi basta ammirare Venere o la costellazione di Orione per sentirmi tranquillo. Faccio anche il segno della croce, sa? Ogni volta che mi sento in pericolo o in difficoltà. Me lo hanno insegnato i gesuiti, quando avevo 11 anni, a Chiloé». A Chiloé c'è arrivato anche Bruce Chatwin, nel suo viaggio in Patagonia. Ma non trovò Coloane, e nessuno che gliene parlasse. E' curioso come il grande cantore della Terra del Fuoco e dei mari Magellanici sia sfuggito completamente proprio a chi ne ha costruito un mito letterario. Una spiegazione è nella geografia: la Patagonia di Chatwin è soprattutto argentina, e gli argentini (salvo Borges) hanno spesso ignorato il cileno Coloane. C'è un confine, che non è solo il filo spinato teso nel nulla ai due lati del quale, come leggiamo in un altro racconto dei Balenieri di Quintay, due immigrati si incontrano ogni Natale. Una stretta di mano, una bottiglia di whisky, poi ripartono a cavallo nelle opposte direzioni galoppando sul «coiron», l'erba che ricopre il terreno e che è il perno di tutto, il cuore della vita. Coloane è diventato scrittore grazie al «coiron»: «Avevo 14 anni, scrissi un racconto ispirato alla primavera. In Patagaonia l'inverno è una patina di ghiaccio uniforme, ma sotto vive quell'erba, che a primavera esplode con una forza incredibile e diventa il nutrimento base per il ciclo dell'anno che ricomincia». Fu anche il suo nutrimento. La sua strada segnata. Perché fece di lì in poi i lavori più avventurosi e persino «estremi», senza dimenticare mai la scrittura. «Il primo libro lo preparai nei quattro anni di servizio militare nella marina, era la storia di un clandestino. Sono stato anche tre mesi nell'Antartide, e lì ho scritto La strada delle balene, l'unico romanzo, credo, che sia mai stato dedicato al Polo Sud». Poi venne quell'irruzione a Santiago che ci ha raccontato Sepùlveda, l'amicizia con Neruda, il tro¬ varsi al centro pur mantenendosi sempre sui confini. Tutti i confini. Il Coloane viaggiatore è un narratore, ma anche un giornalista che va alla scoperta di mondi sconosciuti. Il figlio Juan Francisco scherza sul fatto che gli europei hanno sempre sottolineato la vita avventurosa del padre dimenticando che in fondo il suo lavoro vero era scrivere. Che si è «guadagnato la vita come giornalista». Nella biografie questo aspetto tende a mancare: come se, aggiungiamo noi, rendesse troppo banale la sua Vita, come se ci fosse bisogno di un po' più di mito. Invece lo scrittore per il quale la «Patagonia è condizione di libertà» non ha mai scelto per questo di vivere fuori dal mondo. Viaggi, sì, ma anche vita pubblica e impegno politico con la moglie (sono sposati da 53 anni), traduttrice dall'inglese, energica, minuta vicino a quel gigante alto quasi due metri che è il marito. «Una volta Corvalàn, il leader comunista cileno, ci dedicò un suo libro, scrivendo: a Francisco Coloane, comunista col cuore, e alla sua ferma Eliana. Capisce, io ero in fondo un sentimentale. Il vero "duro" è mia moglie». E da «sentimentale», lo scrittore non rinnega niente della sua militanza politica. «Mi sento comunista nel senso di Engels, di Marx e anche di Gramsci». Anche dopo l'89? Non ha cambiato nulla, per lei? «No, però mi ha commosso». Spiega in che senso: la comunicazione globale, dice, ha mutato la percezione delle cose; e allora forse era davvero inevitabile, come aveva previsto Eliana, ma a lui, in fondo, «è dispiaciuto». E' nato prima della Rivoluzione d'ottobre, ha avuto il tempo di vederla finire ingloriosamente. Sente tutto ciò come una sconfitta? «Niente affatto, il secolo è stato grandioso. E quello che arriverà sarà (ondato sulle nostre radici. La gente che lavora non è stata sconfitta». E il mare, il suo oceano, è stato sconfitto? Nell'ultimo racconto che dà il titolo al nuovo libro, c'è il ricordo di una caccia alla balena del '53, seguito da poche righe che sembrano un triste addio: «Non sono più tornato a Quintay, perché oggi è un luogo desolato, senza capodogli né balenieri. Soltanto la mole del promontorio dirama si affaccia ancora sulla spiaggia oceanica accogliendo il grido universale di Greenpeace». E' il certificato di morte per il suo mondo? «No - sorride il vecchio scrittore - la terra è un pianeta azzurro. E il mare si salva». Poi sembra voler cambiare discorso. Scopre il tatuaggio, e racconta: «Ce lo siamo fatti eguale, 40 anni fa, in tre amici. Sono rimasto l'unico vivo. E ho conservato la voglia di viaggiare, che è sempre stato un rischio, e che mi piace. Anche adesso, questi dieci giorni che trascorro a Roma, data la mia età, possono rappresentare un rischio. Ma ogni volta si riparte, e con una sola speranza, di fare un bel viaggio». Per questo ci sta dicendo che il mare si salverà? Francisco Coloane pesca dalla memoria un verso di Neruda: «por ti pintan de azul les hospitales», e cioè «per te dipingono di azzurro gli ospedali». «E' dedicato al mare. Quel "tu" è il mare. La poesia si intitola Alberto Roja Jimenez viene volando. E anch'io tornerò a Santiago, da Roma, volando». Mario Baudino L'hanno paragonato a Melville e a Conrad: nella sua lunga vita ha fatto il marinaio, il guardiano di «estancias» il giornalista e l'esploratore polare Continua a definirsi «comunista nel cuore» Un veliero in tempesta in un disegno di Rockwell Kent Sotto lo scrittore Francisco Coloane Luis Sepùlveda