«Lavo piatti, è il mio passaporto

«Lavo piatti, è il mio passaporto IL PREZZO DI UN SOGNO «Lavo piatti, è il mio passaporto Saliou: sarà un lavoro umile, ma sopravvive I MILANO O sono orgoglioso di essere un lavapiatti, l'importante è avere la dignità», assicura Saliou, 29 anni, senegalese, uno tra i mille extracomunitari che si aggirano per Milano. Dove è arrivato tre anni fa con un permesso turistico, un milione in tasca e la voglia di farcela anche per sua madre, suo padre e gli altri sette fratelli e sorelle rimasti a Dakar. «Lo faccio per loro, contano tutti sul mio lavoro e sul mio stipendio alla fine del mese», fa i conti Saliou, che in Senegal lavorava il legno come artigiano e adesso lava i piatti nelle cucine di un ristorante multietnico. «La paga è buona», giura senza nascondere di dover combattere una guerra ogni mese. «La casa è piccola, la divido con altri tre senegalesi. Metà del mio stipendio se ne va con l'affitto. Poi ci sono le bollette, qualcosa per mangiare e per vestirsi», fa l'elenco. «Perché sono venuto qui? Perché se anche a Dakar avevo il mio pane da masticare, rimanevo a Dakar...», risponde. Ed è la risposta di tutti quelli che affrontano il mare su un gommone, si nascondono in un container con il rischio - se va bene di essere rispediti a casa. E di ripartire da zero verso un altro gommone e un altro container, per attraversare un'altro mare. «Io sono venuto in Europa con un visto turistico. In aereo sono andato prima a Parigi poi ho scelto Milano», racconta la sua geografia vagabonda Saliou. «All'inizio è stata dura, i primi sei mesi è stata molto dura», confessa di quei giorni senza un soldo, senza documenti, senza un futuro visibile giorno dopo giorno. «Mi hanno aiutato i miei 'fratelli', mi davano da mangiare loro», racconta la solidarietà ricevuta, quell'aiuto minimo indispensabile che non ti fa affogare subito, tra un centro di accoglienza e un commissariato, prima dell'inevitabile fogho di via. «Non sapevo nemmeno una parola di italiano, avrei fatto di tutto...», confida Saliou. E in quel «tutto» che dice, c'è lo spazio per la cronaca nera, i mattinali della questura, i trafi- letti in cronaca dove quelli come Saliou, meno fortunati di Saliou, si trovano in quantità. «Io fortunato? No, tiro avanti come fanno tutti gli altri», dice disincantato. «Quando ho lasciato Dakar, mio padre mi ha detto una cosa sola: 'Non dimenticare che sei un senegalese'», ricorda Saliou, che quel monito fatto di fatica, orgoglio e appartenenza sembra averlo scolpito in mente. Già, ma vuol dire tante cose essere senegalese in una città che ha due milioni di abitanti, le ronde di notte contro gli extracomunitari e le periferie che si fanno sempre più lontane. «Al ristorante mi trattano tutti bene. Sono contento di quello che sono, ma se anche fossi un italiano non mi vergognerei mai del lavoro che faccio», giura, orgoglioso di questa nuova vita che va avanti da tre anni, sempre stringendo i denti. «Sono un lavapiatti. E' solo il mio modo di tirare avanti», poi confessa. Quanto guadagni non lo vuole «I primi sei mesi sono stati davvero duri: non avevo un soldo né documenti e futuro» «Ora va bene: sono regolare e riesco perfino a mandare dei soldi in Senegal»

Luoghi citati: Dakar, Europa, Milano, Parigi