GOMBRICH Silenzio, parla l'arte

GOMBRICH Silenzio, parla l'arte i saggi di bordo. Dai surrealisti ai musei-mercato, bilancio del secolo con un maestro controcorrente GOMBRICH Silenzio, parla l'arte SLONDRA TA scrivendo un libro sul gusto del primitivo nell'arte, che da Picasso in poi ha contagiato artisti e collezionisti. (Adesso sono molto vecchio e lento. Come dice Michelangelo, la mano ubbidisce all'intelletto, però la mia non lo fa più». L'artrosi ha rallentato i suoi gesti, ma la mente ha la stessa acutezza rapida di prima. Due volte a settimana detta i suoi testi a Lady Caroline Mustill, che la mattina arriva puntuale in questa piccola villa del quartiere di Hampstead. «Parla tutte le lingue, anche il cinese. Dovrebbero saperle i ragazzi, che non conoscono nemmeno la loro, perché la televisione la distrugge». Ernst Gombrich mi riceve nella casa dove vive da più di cinquant'anni con la moglie Use, che era allieva di sua madre Leonie Hoch. Al conservatorio di Vienna Leonie aveva avuto come maestro Anton Bruckner, conosceva benissimo Mahler e suonava con Schònberg, «ma non le piaceva perché non aveva il senso del ritmo», mi dice il professore con la sua voce calma in un italiano perfetto, in cui l'unica nota esotica è la r austriaca. Suo padre Karl, che all'Akademische Gymnasium era compagno e amico di Hugo von Hofmannsthal, invece, voleva che facesse l'avvocato come lui, perché era convinto che uno storico dell'arte non poteva guadagnare abbastanza per vivere. «Ma siccome il padre di lui, a sua volta, lo aveva forzato a diventare avvocato, non voleva fare lo stesso errore con me». Oltretutto la situazione a Vienna era tragica e la gente non trovava lavoro. «Ecco una delle ragioni per cui diventarono così colti», mi spiega come se raccontasse la vita di qualcun altro. I ricordi di bambino nella sua mente, abituata per quasi 90 anni (è nato il 30 marzo 1909) a registrare ogni mimmo dettaglio, hanno la forma di fotografie, una delle rare espressioni di arte contemporanea, che ha il privilegio del suo consenso, tanto che nella 16a edizione della sua Storia dell'Arte, tradotta in 20 lingue e arrivata a 5 milioni di copie, le dedica con lo stupore di tutti la sua attenzione. «Ho visto passare l'imperatore Francesco Giuseppe, che si dirigeva verso il castello di Schònbrunn racconta - e ho assistito anche al suo corteo funebre». Sente ancora il sapore degli ultimi panini bianchi che mangiavano per la prima colazione alla vigilia dello scoppio della guerra, il rumore dei cannoni lontani, quando con i genitori e le due sorelle passò l'estate in Svizzera nel 1918: «Questo rimbombare sordo e regolare che veniva dal fronte italiano era portato dal vento fino a quel piccolo sentiero di alta montagna su cui noi camminavamo». Come un flash ha negli occhi il crollo della monarchia austro-ungarica, il giorno dell'maugurazione della Repubblica, 1*11 novembre del 1918: «Sulla Ringstrasse c'era una folla immensa, che sventolava le bandiere...». La sua Vienna non era quella dei valzer, delle operette o del vino novello, né soltanto la culla intellettuale di tutti i movimenti moderni di Freud in psicologia, di Wittgenstein in filosofia, Adolf Loos in architettura e Schònberg in musica, che secondo i luoghi comuni nacquero grazie alla decadenza austroungarica e all'intelligenza degli ebrei viennesi. «Io sono prima di tutto uno storico e proprio per questo ho sempre combattuto gli stereotipi, i clichés su epoche, nazioni e movimenti», dice con decisione seduto sulla sua poltrona nel picco¬ 10 salotto pieno di libri e di carte, illuminato da una finestra-veranda. 11 verde del giardino davanti la casa sembra affacciarsi a tenergli compagnia. Ha la stessa luce del quadro di Lucien Freud, esposto nella sala della Tate Gallery, dedicata alle sue opere recenti. «E' un grande pittore», ammette Gombrich, accusato di disdegnare i suoi contemporanei. «Per fortuna i giovani, almeno qui in Inghilterra, stanno tornando al figurativo». Chi sono? Gli chiedo. Ma non fa nomi. Non vuole privilegiare o escludere nessuno. Questi ragazzi vengono a trovarlo, adesso che tutti i suoi amici non ci sono più. Se ne è andato pure Karl Popper: «Eravamo molto legati anche se lui non si interessava affatto alla storia dell'arte ed io non sapevo nulla della teoria del quantum e della fisica moderna, che lo appassionava». Quando non scrive e non legge Gombrich ascolta musica. Classica naturalmente. Accanto alla finestra c'è il lungo piano a coda, che la moglie Use suona ancora, e dietro la sua poltrona una pila di compact disc con i suoi autori preferiti: (Amo molto le sonate per pianoforte di Haydn, Schubert, Beethoven eseguite da Alfred Brendel. Il che non vuole dire che gli altri compositori non abbiano un grande valore». Come fa quando racconta la storia dell'arte, pure avendo opinioni chiarissime, personali e spesso contro corrente, Gombrich lascia il pubblico libero di farsi un'idea propria. Il suo chiodo fisso è che non esiste una cosa chiamata arte, ma solo gli artisti, «uomini che un tempo con terra colorata tracciavano alla meglio le forme del bisonte sulle pareti di una caverna e oggi comprano i colori e disegnano gli affissi pubblicitari per le stazioni della metropolitana, e nel corso dei secoli fecero parecchie altre cose», come scrive nell'introduzione della sua famosa Storia (Leonardo Edizioni) in cui per 637 pagine spiega nella marnerà più colloquiale e articolata possibile il perché di ogni espressione artistica dall'età paleolitica ad oggi, mettendo un accento particolare sul Rinascimento italiano, che cominciò ad approfondire dai tempi dell'Università. Il che non gli impedisce di valutare il periodo successivo, il Manierismo, considerato fino ad allora un'epoca di decadenza. Nel 1933 con la sua tesi dedicata agli affreschi del Palazzo del Tè di Mantova, fatti da Giulio Romano, l'allievo prediletto di Raffaello, Gombrich ha dimostrato esattamente il contrario. Con l'ingenuità di un bambino mi porge la pergamena con la cittadinanza onoraria che proprio due settimana fa il sindaco della città è venuto a portargli. «Ci tengo molto», dice. Ad avere orrore per le generalizzazioni e i giudizi astratti glielo aveva insegnato il suo professore all'Università di Vienna, Julius von Schlosser. «Dobbiamo essere scientifici e precisi, abbiamo bisogno di documenti, ci diceva Schlosser. La storia dell'arte deve essere presa sul serio, come una scienza, anche se non lo è». Questo è stato il terreno su cui la mente fertile di Gombrich ha cominciato il suo viaggio, che continua ancora oggi, nei meandri delle opere d'arte, prodotti sempre del pensiero oltre che della mano dell'uomo. L'interesse per la psicoanalisi glielo aveva risvegliato l'amico e maestro Ernst Kris, più grande di 9 anni, allievo di Schlosser pure lui, che stava nel circolo di Freud, perché sua moglie Marianne Rie era figlia del migliore amico di Sigmund Freud ed era uno dei responsabili della rivista degli psicoanalisti di Vienna, «Imago», la quale cercava di dimostrare come si poteva applicare la psicoanalisi alla vita quotidiana. A Gombrich piace sfatare i miti: «Non ho mai incontrato Freud. Era mia madre che lo conosceva bene da ragazza, ma non lo amava affatto, anche se ammetteva che era molto brillante quando raccontava le sue storie ebraiche». A Freud comunque Gombrich ha dedicato il libro Freud e la psicologia dell'arte (Einaudi), in cui attraverso il carteggio del padre della psicoanalisi, che aveva un debole per Rembrandt, mette a fuoco le sue posizioni sull'arte, ma non le condivide affatto, sempre per la sua allergia a stereotipi e clichés, che considera una violenza verso la realtà: «Era conservatore e tradizionalista ed aveva una grande ostilità verso tutte le correnti con¬ temporanee», mi racconta. Professore, ma non è una contraddizione che lui ripudiasse proprio quegli artisti, come i surrealisti e gli espressionisti, che più di tutti erano influenzati dalle sue teorie? «Lo è, ma lui si burlava di loro e li considerava dei matti. Cre¬ deva che non capissero niente della psicologia. Per lui il sogno raccontato da qualcuno senza le associazioni non vuole dire proprio niente. E' come un enigma senza chiave. Infatti era convinto che le associazioni personali sono la chiave dell'inconscio». E lei cosa pensa di questi infiniti rivoli dell'arte contemporanea, dell'uso e la sperimentazione di nuovi materiali? Gli chiedo, conoscendo già la sua risposta. «L'arte oggi assomiglia più e più alla moda. Anche la moda cambia sempre grazie ai media e a voi giornalisti», mi guarda un attimo come per scusarsi e continua: «Vede, le mostre per esempio sono manifestazioni di moda. Vivono di chiacchiere». Si rende conto, però che l'artista, per comunicare, ha bisogno di un intermediario, di un mercante che faccia da ponte fra lui e il mondo. «Serve a tenere d'occhio il barometro, che segna le variazioni del gusto, a osservare le tendenze e scegliere le giovani promesse», osserva, «ma i mercanti non sono in grado di provocare brezze favorevoli o contrarie più di quanto lo possa un mulino a vento». Per i musei Gombrich ha un sacro rispetto, anche se non gli piacciono i musei-mercato o quelli che inventano continui avvenimenti per fare parlare di sé. «Il Museo non deve essere attivo, ma contemplativo». Per esempio? «La Frick Collection di New York o la Wallace di Londra. Sono spazi silenziosi e raccolti dove si può entrare a contatto diretto con ogni singola opera». Da sempre è convinto che dopo una visita ai maestri del passato si esce con l'occhio modificato perché si percepiscono le forme, la luce, le proporzioni in marnerà differente. «Quelli che vogliono vedere tutto, senza fermarsi veramente su niente, sono come i turisti, che vogliono mangiare tutto il menù di un ristorante». Non ha mezzi termini nemmeno nei confronti dei musei sostenuti da capitali privati, come il Guggenheim. «Anche questi fanno parte della nostra società, che ama la sensazione e il chiasso. L'arte è esattamente l'opposto, perché provoca sensazioni dentro. C'è un modo di dire inglese, "a talking point", che rende perfettamente l'idea». Per un attimo sono avvocato del diavolo e gli faccio notare che ai musei servono capitali per vivere. «I grandi musei come gli Uffizi - mi risponde - non hanno bisogno di soldi per acquistare nuove opere e sono molto più belli di quelli sensazionali». Tipo? «Quello di Frank Gehry a Bilbao, o la Piramide del Louvre e la National Gallery di Washington di I. M. Pei. Anche questa architettura prevalente fa parte del sensazionalismo». L'ideale, secondo lui, sarebbe andare a vedere un unico quadro come la Madonna del Parto di Piero della Francesca a Monterchi o la Tempesta di Giorgione che lui vide ancora nel Palazzo Giovanelli a Venezia. «Ma già da quando l'hanno trasferita all'Accademia è cambiato tutto», dice. Il discorso scivola sempre verso il passato. Dall'Impressionismo in poi tutti gli «ismi» del nostro secolo, dal Surrealismo, al Dadaismo, al Cubismo, il Futurismo e via dicendo, gli provocano la stessa insofferenza che gli dà qualsiasi generalizzazione: «Gli Impressionisti volevano liberarsi della "maniera", certo si può cercare di cancellare i pregiudizi, ma il meccanismo della percezione dipende sempre dalla ragione, dall'esperienze, dalle aspettative». Quindi l'innocenza dell'occhio sarebbe impossibile. «E' un termine che deriva da Ruskin. Ma è un'utopia credere che ci può liberare del tutto dall'esperienza e dall'istinto, che sono necessità biologiche. L'occhio non è solo un registratore, trasmette tutto, anche le nostre paure. E raccontare questo per lo storico è un po' più complicato». Quindi, secondo lui, Cézanne, che dà l'avvio al Cubismo, e il predicatore van Gogh, padre dell'Espressionismo, hanno cercato di liberarsi del passato nelle loro teledove il segno si dissolve in macchia, ma sotto, sotto la struttura rimane. Nella casa c'è un silenzio totale. Si sente solo la voce ferma e costante del professore e il rumore della pioggia che fuori bagna questa Londra in piena estate. Si affaccia Use con il suo viso luminoso e i capelli bianchi a salutare. Le vado incontro, mi sorride rapida e se ne va. Sono sposati dal 1936 da quando Gombrich si è trasferito all'Istituto Warburg, che fa parte dell'Università di Londra, con cui lavora ancora oggi. Il loro unico figlio Richard ha la cattedra di sanscrito a Oxford: «E' un orientalista molto colto», dice con la stessa obiettività bonaria, che cerca di usare sempre verso gli artisti che studia. L'unica ostilità vera gli salta fuori con i concetti astratti. Lo sviluppo dell'arte? Non esiste. L'arte astratta? Nemmeno. Dove va l'arte? Non va. Il nostro tempo? E' anche un cliché, perché, come dice Croce, l'arte è sempre individuale. ((Anche il mio professore Schlosser odiava le tesi sullo sviluppo. Non essendo un organismo, l'arte infatti, non può avere un'evoluzione». E l'eterno dissidio tra figurativo e astratto? Gli chiedo. «Non esiste arte astratta, ma un'arte che cerca forme pure, linee, colori, risultati che non sono né possibili, né interessanti. Nemmeno per i giovani». Tutte queste manifestazioni di oggi fanno dunque parte di quel filone «talking point» di cui parlava prima. «I veri artisti esistono oggi come ieri. Quello che è cambiato è l'universalità della comunicazione. C'è un gran rumore per non dire niente. Come fa la televisione. Anche Popper la detestava». Fiamma Arditi Contro gli ingordi di capolavori: «Basta ammirare un solo quadro, come la "Tempesta" di Giorgione» «I veri artisti esistono, oggi come ieri. Ma c'è un gran rumore non dire niente. Come fa la tv». apolavori: lo quadro, orgione» «I veri artisticome ieri. Manon d La «Madonna del Parto» di Piero della Francesca. Sopra, Ernst Gombrich