La solitudine del segretario

La solitudine del segretario Massimo D'Alema ultimo di una lunga serie di politici esasperati dal fuoco dei media La solitudine del segretario Quando ai leader saltano i nervi IL CASO LO STRESS PEL POTERE ROMA ON si offenda, D'Alema. Ma in genere sono proprio interviste come quella - peraltro assai leggibile - che ha dato ieri all' Unità a suscitare e alimentare quei «tratti di psicologia spicciola applicati ai problemi politici e alle persone» di cui pure si è lamentato. Capita a tutti, infatti, anche ai capi, di perdere le staffe. E di essere giudicato su quella base, diciamo, diagnostica che ha spinto il compagno ulivista Petruccioli a parlare di «paranoia». Parola poco simpatica, certo, per quanto ovviamente sprecata e spropositata nella sua evidente deriva psichiatrica. Il leader dei Ds, in realtà, sembra solo l'ultimo di una lunga serie di politici «scoppiati» - come si dice benevolmente durante la naja sotto il fuoco dei media e il bombardamento delle news. Il penultimo caso, per dire, fu quello di Fausto Bertinotti, nell'ottobre del 1997 accusato ripetutamente di debolezza, emotività e «narcisismo» per aver determinato la crisi di governo «più pazza del mondo». Anche in quell'occasione, al di là di ogni valutazione politica, si parlò di «egotismo dei leader» (la ministra Finocchiaro) e di «ego ipersviluppati» (il portavoce verde Manconi). Adesso la psicopatologia del leader sull'orlo di una crisi di nervi si esercita necessariamente su D'Alema. Necessariamente, perché D'Alema non solo è considerato un leader a sangue freddo, ma anche perché una delle caratteristiche decisive della sua leadership è sempre stata quella di tra- smettere sicurezza al suo partito. Nell'intervista di ieri, invece, per la prima volta si distingueva a fatica il ragionamento politico dallo sfogo personale con prevalenza, comunque, di quest'ultimo. Al di là dell'Ulivo, quindi, e del referendum, del governo, del sindacato, di Rifondazione, della Bicamerale e di tutte le altre possibili «tecnicalità» politiche veniva fuori un nuovo e particolare tipo di fragilità. Come se al gelido D'Alema, principe dei sarcasmi, fosse improvvisamente sfuggita di mano l'immagine di sé o il controllo più che sperimentato della propria indispensabile visibilità. O almeno: i sintomi di un'inedita disfunzione comunicativa, nell'intervista dalemiana all'Unità, sembravano esserci tutti o quasi. E quindi, da sommaria osservazione: sospetta insistenza dell'intervi¬ stato sulle proprie condizioni di calma e serenità; significativa abbondanza di punti interrogativi nelle risposte; sistematica confusione e accavallamento di «io» e «noi»; reiterato richiamo a «preoccupazioni», «pericoli», «rischi», minacce e misteriose evenienze in ogni caso incombenti, fino al più terminale «scatafascio». Poi sommovimenti viscerali; ironie malriuscite che slittano verso una rabbiosa amarezza; oscuramento di razionalità negli altrui comportamenti; accenti vagamente depressivi («Mi vengono a parlare», «mi mandano a dire», «l'avevo detto pubblicamente», «l'avevo detto, ma non mi stanno a sentire»). Ora: ogni capo sconfitto, ogni leader in crisi, ogni politico più o meno «scoppiato», reagisce - come del resto ogni individuo - a modo suo. Fanfani, per dire, spariva e a volte scappava in convento; Moro si ammalava e pensava di abbandonare la politica. Chi mangia, chi beve, chi prende le pillole, come Andreotti dopo la mazzata della mafia. Cossiga ha raccontato di essersi fatto venire tic, capelli bianchi e malattie della pelle. De Mita si è rovinato a raccontare la sua «nausea», le sue scaramanzie, il rasoio che scorreva o non scorreva bene sulle gote quando si faceva la barba. Del predecessore di D'Alema, Occhetto, esistono quelle immagini spaventose, gonfio, con un bicchiere di whisky in mano, appena dopo la bocciatura alla fiera di Rimini. Del tramonto politico ed esistenziale di Craxi resta agli atti quell'altra foto sconvolgente, mentre sorride con gli occhi sbarrati facendo le corna. Perfino Di Pietro ha avuto i suoi bravi cedimenti di nervi quando, per giunta interrogato da un giudice, balbettò: «Io... sono una persona». Vero. Anche i leader, in effetti, sono «persone». Per quanto professionalmente, forse perfino antropologicamente animati da «quel misto di ferocia egoista e cortesia altruista proprio del mondo politico» (Régis Debray). Il loro particolare dramma è costituito dai riflettori che li costringono a parlare ed agire non in funzione di quel che provano. Ma di quello che essi credono che gli altri - lo sterminato e invisibile pubblico dello spettacolo politico - provino sentendoli o guardandoli in tv. Sembra un inutile gioco di parole, e invece in una vita pubblica sempre più leaderistica e personalizzata è una pena autentica. Così com'è una vera sofferenza rendersi conto, e solo attraverso gli effetti, della propria mancanza di autocontrollo; o scoprire d'un tratto che l'agognata esposizione e la conquistata visibilità sono armi a doppio taglio. E di nuovo la «paranoia» non c'entra nulla. Ma il leader perde lo stesso l'agenda, smarrisce la gerarchia delle priorità, va a rimorchio del giorno per giorno, fa zapping, si agita, si affanna. Reagisce, in pratica, invece che agire. E si sente solo - ma se lo dice è perduto. Filippo Ceccarelli Bertinotti fu accusato di debolezza, emotività e «narcisismo» Fanfani scappava in convento; Moro si ammalava Andreotti prende le pillole, a Cossiga sono venuti tic capelli bianchi e malattie della pelle Nausea per De Mita e balbuzie per Di Pietro di deboemotie «narcisFanfani scin conventsi ammQui accanto il leader diessino Massimo D'Alema La solituQuando am pubblto, mare»). Oraogni ltico p Qui accanto Amintore Fanfani, quando era stressato scappava in convento. A destra Fausto Bertinotti, accusato di «narcisismo» Qui accanto il leader diessino Massimo D'Alema

Luoghi citati: Rimini, Roma