Il filo spinato di Lampedusa di Flavia Amabile
Il filo spinato di Lampedusa Il filo spinato di Lampedusa «Il centro di accoglienza? E' un carcere» LE SBARRE DELLA SPERANZA LAMPEDUSA DAL NOSTRO INVIATO Una rete coronata da grosse matasse di filo spinato corre tutt'intorno all'area. Nei punti più deboli alcuni pali conficcati nel terreno garantiscono la tenuta. Al di là della rete e del filo spinato si apre un cortile, rovente nel sole, piantonato da tre, a volte quattro poliziotti. Un impianto, di recente potenziato, garantisce l'illuminazione per il controllo notturno. Tranne un'eccezione, nessun civile viene ammesso all'interno. Nemmeno mi medico. Non è un carcere, è il Centro di accoglienza di Lampedusa, il binario morto delle speranze dei clandestini nordafricani. Dal 14 luglio, 147 extracomunitari giunti da Tunisia e Marocco giacciono lì, nel punto più remoto dell'isola, maltollerati dai locali, ignorati dall'amministratore parrocchiale e dai volontari della Caritas. Ancora non lo sanno i clandestini. Molto probabilmente dell'Italia e dell'Europa conserveranno solo un'immagine: il filo spinato di Lampedusa. Dopo 15 giorni sull'isola, soltanto una persona è stata condotta via dal Centro: una donna, l'unica in una folla di ragazzi tra i 20 e i 30 anni in gabbia. Motivi di opportunità e prudenza hanno spinto le autorità a inviarla in un Centro della Sicilia, in compagnia di altre donne. Da quel momento i cancelli non si sono mai più riaperti per i clandestini. Sono stati i clandestini ad appro- fittare domenica scorsa di una distrazione dei poliziotti. In 10 hanno posto in atto un disperato tentativo di fuga. Volevano raggiungere Porto Empedocle. Si sono ritrovati poche ore dopo di nuovo al di là del filo spinato a bollire di rabbia. Un risultato, in realtà, l'hanno ottenuto. Il giorno successivo al tentativo di fuga hanno ricevuto un pallone di gomma per giocare, e detersivi e vestiti per sostituire panni ormai logori e luridi: li indossavano dal lontano giorno della partenza dalla Tunisia. I clandestini hanno capito il messaggio: la loro permanenza a Lampedusa non sarà breve. Si attende un rappresentante dei loro governi per il riconoscimento, primo passo per il rimpatrio. L'ambasciatore del Marocco potrebbe giungere an¬ che nelle prossime ore, dopo l'accordo concluso a Rabat, ma da Tunisi tutto tace. Nel frattempo, i clandestini continuano la loro vita presidiata e isolata. Un telefono pubblico è una delle due uniche possibilità di contatto con l'esterno concesse. L'altra è rappresentata dalla famiglia dell'uomo dei panini. L'uomo si chiama Antonino Maggiore, ma tutti a Lampedusa lo conoscono come «zio Perugia». Due volte al giorno affronta, con il suo «Ape» sommerso di buste, le strade sconnesse del paese fino al Centro dai clandestini. Davanti a «zio Perugia» il cancello si apre, l'«Ape» entra. I clandestini vengono schierati nel cortile, e chiamati per numero, uno dopo l'altro. Vengono consegnate le buste. E' un momento delicato, i poliziotti sono sul chi vive: qualcuno prova sempre a prenderne due, scoppiano risse. Ottenuta la busta, i clandestini l'aprono, addentano i panini che - per contratto - dovrebbero contenere soltanto «provolina». Dopo oltre 10 giorni di «provolina» mattina e sera, i clandestini hanno protestato. Nei panini ora vi sono anche altri formaggi o tonno. Da ieri, oltre ai panini sono giunti i primi pasti caldi: fusilli al sugo, tonno sott'olio e insalata. I clandestini impegnati a mangiare, «zio Perugia», la moglie e il figlio iniziano la parte più gravosa del lavoro: la pulizia delle stanze. I clandestini vivono in sei costruzioni di otto camere e quattro bagni ciascuna. Quando «zio Perugia» e i famigliari vi mettono piede, lo spettacolo è sempre lo stesso: pa¬ vimenti coperti di ogni genere di rifiuti, anche escrementi, bagni allagati, coperte inzuppate d'acqua stese per terra, materassi distrutti, lenzuola strappate, topi. In tre, a volte quattro ore, «zio Perugia» e i suoi mettono in ordine quel che possono. Quando escono, il pavimento è piuttosto lucente, i bagni quasi puliti. «Zio Perugia» e i suoi non possono, invece, intervenire sui lavabi divelti, o le cabine della doccia distrutte. Hamio provato a farlo le Forze dell'ordine. Lavabi e cabine sono stati sostituiti: un'opera da 30 milioni. Poche ore di tempo: le porte erano di nuovo sfasciate. Lo stesso accade ai bagni e ai pavimenti pubti da «zio Perugia» e dai suoi. Dieci minuti dopo il ritorno dei clandestini nelle stanze, ogni parvenza di pulizia scom¬ pare. Quando il cancello del Centro si chiude dietro l'«Ape», si chiude sul mondo esterno. Nessuno può recarsi in visita, se non autorizzato. Ma, a parte i giornalisti - che non ottengono il permesso - nessuno si presenta al cancello del Centro a chiedere di entrare. Nemmeno don Alfonso Cacciatore, 28 anni, da un anno amministratore parrocchiale di Lampedusa, né i circa 100 volontari che lavorano con lui. Davanti a un piatto di pasta fumante, don Alfonso spiega il suo atteggiamento: «Questo è un problema diplomatico, non possiamo sostituirci allo Stato. Quando serve il nostro intervento ci chiamano. Non l'hanno l'atto: evidentemente non ne avevano bisogno». Flavia Amabile Topi, sporcizia e lenzuola strappate Il parroco: problema che non ci riguarda I clandestini sbarcati a Lampedusa. A destra Dini assieme al re Hassan
Persone citate: Alfonso Cacciatore, Antonino Maggiore, Dini
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