Missione a Beirut, il ritorno del generale di Sandro Cappelletto
Missione a Beirut, il ritorno del generale «Per rivedere la città aspettavo un'occasione degna: me l'ha data il concerto della Filarmonica» Missione a Beirut, il ritorno del generale Angioni ha scortato il «contingente» artistico del maestro Muti BEIRUT. «La sua luce, quella di sempre». Il generale Franco Angioni ritorna per la prima volta nella capitale del Libano, 14 anni dopo il 26 febbraio 1984, quando il contingente italiano lasciò la città. «Non c'era mai stata un'occasione degna, questa lo è: il nome dell'Italia si associa ancora una volta a quello della pace», dice riferendosi al concerto che l'orchestra della Scala e Riccardo Muti hanno tenuto ieri sera al Forum, il più importante centro commerciale della città nuova. Scendiamo dall'aereo, saliamo sul bus che, scortato da camionette della gendarmeria libanese, ci condurrà all'albergo. «Qui, sotto i nostri piedi, c'erano 11.600 mine. Le avevano messe gli israeliani, gli americani volevano entrare per primi nell'aeroporto per essere loro a riaprirlo; le conoscevano bene, avevano usato loro per primi quelle mine in Vietnam, ma dopo tre marines saltati in aria, hanno chiesto a noi di bonificare la zona. Lo abbiamo fatto». I militari devono saper controllare, perfino negare le proprie emozioni, e per un po' il generale ci riesce. Non si appanna lo sguardo quando uri enorme cratere, le fondamenta di un nuovo edificio accanto all'aeroporto, si apre dove lui ricorda le macerie di una caserma americana: «Trecentoquaranta soldati morti per un camion bomba». Ci avviciniamo alla Linea Verde, lì dove gli italiani dovevano tentare di far rispettare le rigide divisioni territoriali tra i tanti eserciti che occupavano la città. A destra, si apre la via che porta a Damasco - «era la più pericolosa, una terra di nessuno» -, a sinistra le rovine di Sabra e Chatila, un quartiere ancora poverissimo. «Tutti hanno parlato di 2 mila palestinesi uccisi: erano mol¬ ti di più, nel conto non hanno voluto mettere i bambini sotto i 2 anni, sventrati, irriconoscibili». L'Holiday Inn è uno spettro di vetri fumé, le finestre delle camere aperte sul vuoto, la facciata bucata dalle granate; il Saint George ha invece riaperto, come molti altri alberghi. Centinaia di case appaiono ancora vuote, e lo resteranno per lungo tempo, se centinaia di migliaia sono stati i libanesi che hanno lasciato la patria, ed ora diventa difficile risalire ai proprietari. Ma accanto, grattacieli, moschee, negozi. Piazza dei Martiri, in un furore iconoclasta, è stata rasa al suolo, compreso il vecchio mercato, per farvi sorgere il più grande cantiere della città. «Eccolo», dice il generale. «Il mio comando, quello che resta». Ora, l'emozione lo vince: la palazzina dove ha vissuto 18 mesi è un cumulo di macerie, transennato. «Non so chi sia stato, chi abbia deciso questo. Ma se si è voluto distruggere un simbolo della guerra, non mi dispiace». Ha scritto Paul Van Zeland, un economista belga stupito della agilità dell'economia libanese negli Anni 50 e 60: «Non so cosa faccia girare l'economia di questo Paese, ma visto che funziona così bene, non toccatela». Lei crede a questa rinascita, di cui l'Italia - primo Paese nelle importazioni libanesi - è un interlocutore forte? «Ad ogni cessate il fuoco, anche il più breve, il più precario, c'era sempre qualcuno che cominciava a ricostruire, che ci credeva. Apriva un negozio, passava un carretto a vendere qualcosa: i libanesi sono tenaci, fantasiosi. Ce la faranno, se continueranno ad averne la possibilità». Sandro Cappelletto «Il nome dell'Italia oggi come 14 anni fa si associa ancora una volta a quello della pace» Il generale Franco Angioni
Persone citate: Angioni, Chatila, Franco Angioni, Holiday, Paul Van Zeland, Riccardo Muti, Sabra
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