GUERRA FREDDA un giallo della storia

GUERRA FREDDA un giallo della storia Azzardi e meriti dei revisionis Attaccando l'ufficialità diedero impulso alla ricerca dei fatti GUERRA FREDDA un giallo della storia REVISIONISTA è un termine che come insulto, o addirittura anatema è riapparso più volte in questo —I secolo. In politica lo usò il socialdemocratico austriaco Karl Kautsky per qualificare, pur senza la connotazione negativa che avrebbe avuto in seguito, il leader riformista tedesco Eduard Bernstein (a sua volta Kautsky sarà poi messo all'indice da Lenin, ma come «rinnegato»). Fu usato contro John Maynard Keynes e tutti coloro che tra le due guerre mondiali misero in discussione il trattato di Versailles. Fu brandito dagli uomini di Mao contro i dirigenti comunisti, cinesi e non, accusati di aver abiurato all'ortodossia del marxismo-leninismo. E una trentina di anni fa negli Stati Uniti cominciò a essere adottato anche nelle battaglie storiografiche. Con veemenza identica a quella usata nelle polemiche attuali. A differenza di oggi, però, negli Anni Sessanta erano gli storici liberal moderati che lo impugnavano a mo' di bastone contro i loro colleghi di sinistra. Oggetto di quelle discussioni era la dura contrapposizione tra Est e Ovest che ebbe inizio alla fine degli Anni Quaranta. E i revisionisti di allora si contrapponevano da sinistra agli storici tradizionali impegnati ad addossare tutt'intera all'Unione Sovietica la responsabilità di aver scatenato la guerra fredda. Fino a ribaltare quel giudizio, a incolpare quasi esclusivamente gli Stati Uniti e a ricevere per questo attenzioni e complimenti dall'Urss. Elena Aga Rossi qualche anno fa, nella introduzione a un bel libro pubblicato dal Mulino, Gli Stati Uniti e le orìgini della guerra fredda, ha censito con cura scrittori e testi di questa corrente storiografica. A partire da Gabriel Kolko, autore di The Politics ofWar. The World and the United States Foreign Policy 1943-1945, il quale sosteneva che alla fine della seconda guerra mondiale «i sovietci - sono parole sue - perseguirono una linea conservatrice e cauta dovunque potessero trovare gruppi locali non comunisti disposti a ripudiare la diplomazia tradizionale del cordone sanitario e dell'antibolscevismo». Per continuare con William Appleman Williams il quale nel libro The Tragedy of American Diplomacy affermava che la responsabilità per quella crosta di gelo che coprì l'Europa e il mondo intero a partire dalla fine degli Anni Quaranta e andò indurendosi all'inizio dei Cinquanta, fu degli Stati Uniti che avevano adottato una politica internazionale imperialistica per assicurarsi mercati all'estero nonché una continua espansione economica all'inter no. Per passare poi a Gart Alpero vitz il quale in Atomic Diplo macy: Hiroshima and Potsdam avanzò la tesi che le bombe su Hi roshima e Nagasaki erano state sganciate sì sul Giappone, ma con l'intento di mtimichre e piegare l'Unione Sovietica. Questi libri e i molti di identica scuola che a essi si aggiunsero provocarono come s'è detto accanite discussioni, ebbero grande risonanza e - si deve dargliene atto - fecero progredire la ricerca storica. E' vero che, come ha osservato la Aga Rossi, «gli studi revisionisti si sono esauriti senza lasciare opere che possano essere considerate definitive». Ma è vero anche, come ha attestato la stessa studiosa, che alcune delle tesi da loro avanzate e dei problemi da loro sollevati sono divenuti ne- cessali punti di riferimento. Ed è questo che qui ci interessa. Oggi che sono superati anche gli studi successivi che mettevano insieme il meglio delle due scuole contrapposte e che l'apertura di parte degli archivi dell'Est ha consentito indagini storiche più documentate, si deve riconoscere a quei revisionisti di allora i quali ebbero l'ardire di capovolgere le tesi tradizionali, di aver fatto fare qualche passo avanti agli studi su questa materia. Anche se l'ispirazione di quei testi non era ^contaminata e dietro si potevano individuare ben riconoscibili pulsioni politiche, si può dire con assoluta certezza che è un bene che quel nuovo modo di leggere gli eventi del secondo dopoguerra abbia visto la luce. Persino quando si è trattato di azzardi storiografici, anche per le provocazioni. E con altrettanta chiarezza si deve ammettere che, se il fare storia fosse rimasto chiuso nei recinti della tradizione consolidata, del «politicamente corretto» di quell'epoca, se non si fosse corso consapevolmente il rischio di affrontare senza pregiudizi anche le tesi dei nemici della democrazia (tali allora apparivano ed erano i comunisti, tutti o quasi di ispirazione sovietica), se insomma si fosse dato retta agli anatemi, sarebbe stato decisamente un male. Di tutto ciò si ha conferma da un libro di Vojtech Mastny, Il dittatore insicuro: Stalin e la guerra fredda, che le edizioni Corbaccio manderanno in libreria subito dopo l'estate. Libro che quando è apparso in Inghilterra YEconomist ha recensito con entusiasmo. Mettendo in risalto come non avesse niente a che spartire con il «semplicismo» degli studi revisionisti ma come altresì ad essi, in fondo, dovesse qualcosa, Mastny precisa che nell'affrontare la guerra fredda «la distinzione tra la scuola "ortodossa" e quella "revisionista" con le rispettive prescrizioni sulla condotta di Washington dinante lo sviluppo del conflitto con Mosca, si è fatta sfumata».- E che anche «il tentativo "postrevisionista" di trascegliere il meglio delle due scuole non è più attuale». Ma dai revisionisti prende il concetto base che a scatenare quel conflitto fu, più che l'aggressività sovietica, l'insicurezza di Stalin. Anche se, a suo avviso, tale insicurezza non va attribuita alle minacce statunitensi quanto ad una serie di cause storiche più complicate. Quali cause? Prima tra tutte quella derivata dal modo stesso in cui si era realizzata la presa del potere da parte dei bolscevichi nel 1917: «Nato dal colpo di mano di una minoranza e non dall'esercizio della volontà popolare, lo Stato sovietico fu sempre intrinsecamente insicuro. Esso fu il prodotto di una momentanea confusione... piuttosto che di un'insanabile crisi interna al regime zarista che sostituì». Cosicché «i suoi fondatori non lo considerarono sicuro fino a che la rivoluzione che avevano provocato per impadronirsi del potere non avesse trionfato anche nelle altre nazioni». Di qui il tentativo fallimentare di trascinare sulla scia bolscevica altri Paesi europei. E dopo il fallimento dell'impresa fu solo «la mancanza di accordo tra i nemici che permise la sopravvivenza e l'espansione del loro Stato». Ma secondo la dottrina marxista, essi continuavano a sostenere che il mondo esterno rimaneva implacabilmente ostile: fosse vero o no, la costante percezione di una minaccia impedì ai leader sovietici di sentirsi sufficientemente sicuri; ciò li rese differenti da altri leader». E Stalin più degli altri, al punto che l'insicurezza provocò in lui una vera e propria patologia. Insicurezza che però, a differenza di quel che accadde agli altri leader comunisti della sua generazione, lo indusse a tenere in considerazione più i rischi dell'interno che quelli dell'esterno. Negli Anni Venti e Trenta la Germania fu il suo chiodo fisso. E, dopo il '33, Hitler in particolare. La purga hitleriana delle SA nel '34 fu un modello per il dittatore sovietico ed è ormai quasi certo che lo scioglimento del partito comunista polacco nel '38 fu un segnale della sua disponibilità a sacrificare la Polonia sull'altare di un riavvicinamento tra Mosca e Berlino. Riavvicinamento che si tradusse nel patto dell'agosto del '39 il quale fu, com'è noto, all'origine della seconda guerra mondiale. Quel patto tra Urss e Germania nazista fu interpretato da Stalin non già come pretenderebbe la scuola giustificazionista come un espediente tattico per prendere tempo, bensì come la premessa alla «fondazione di un impero mirato ad assicurare allo Stato sovietico una sicurezza duratura». I documenti di parte russa che stanno venendo alla luce sono abbastanza univoci: «Il leader sovietico non si comportava come se pensasse che il suo avvicinamento alla Germania fosse destinato a fallire. Pur avendo costruito installazioni difensive nei territori strategici acquisiti, non fece quanto era in suo potere per prepararli a un eventuale uso. Egli spese invece molta più energia nel tentativo di soggiogare le popolazioni locali con deportazioni di massa e altri strumenti di terrore, dando così un'ulteriore prova di quanto per lui la sicurezza fosse una questione interna e non esterna». Così Mastny. Sono adesso consultabili le carte relative al viaggio di Molotov a Berlino nell'autunno del '40 dalle quali risulta evidente come il ministro degli Esteri sovietico puntasse ossessivamente a un allargamento dell'impero sovietico. E quelle di un anno dopo quando, ad alleanze invertite in seguito all'invasione tedesca dell'Urss, Stalin reimpostò lo stesso identico discorso di ampliamento territoriale sovietico con il responsabile della politica internazionale britannica, Anthony Eden. E' stupefacente quanto fosse chiaro fin da allora (quasi sicuramente già dalla metà degli Anni Trenta) l'obiet¬ tivo di Stalin. Qualche tempo fa l'ex ambasciatore francese a Sofia e a Bucarest, Jean-Marie Le Breton, ha scritto un libro {Una storia infausta, pubblicato in Italia dal Mulino) in cui metteva bene in evidenza la fragilità strutturale dei Paesi dell'Europa centrale e orientale nel corso di tutto questo secolo. In particolare dopo la prima guerra mondiale 0 «sistema di Versailles» sorto sulle spoglie di quattro imperi - austro-ungarico, ottomano, russo e tedesco - vide nascere Paesi dalla sovranità debole con minoranze etniche ostili e frontiere contestate. A causa dell'instabilità di questi Paesi esplose il secondo conflitto del secolo. E dopo la guerra quella «cintura d'insicurezza» per Stalin divenne un incubo. Dai documenti consultati da Mastny emerge con chiarezza che negli Anni Quaranta ci fu un rimescolamento tra la patologia staliniana, alcune sue primitive idee su come i partiti comunisti di tutta Europa avrebbero potuto conquistare il potere, e l'instabilità cronica messa in rilievo da Le Breton. Risultato di questo rimescolamento fu l'atroce dittatura che colpì alcuni Paesi dell'Europa centrale che da allora vennero detti «dell'Est». Epperò questo non fu il frutto di un meccanico inghiottimento di quei Paesi sotto la minaccia delle baionette dell'Armata Rossa come era avvenuto ad esempio per le Repubbliche baltiche, bensì la conclusione di un percorso più tortuoso. E forse anche per questo più tragico. La tortuosità di quell'iter postbellico fu in parte dovuta all'illusione di Stalin di poter trasformare tutta l'Europa o quasi in una serie di piccole e grandi Finlandie. Cioè di forzare tante singole situazioni, sfruttando le strategie dei partiti comunisti per una «via democratica e nazionale» in ogni Paese così da portare l'intero continente sotto la sua sfera d'influenza. Nel settembre del '94 in un convegno a Cortona su L'Unione Sovietica e l'Europa durante la guerra fredda (1943-1953) la studiosa russa Natahja I, Egorova approfondì sulla base di documenti fino ad allora inediti i termini del rimprovero che Andrej Aleksandrovic Zdanov aveva mosse soprattutto ai comunisti francesi, ma anche agli italiani e ai belgi, dopo che questi nella primavera del 1947 si erano fatti cacciare dal governo. Ne veniva fuori una certa confusione da parte del gruppo dirigente di Mosca su quale dovesse essere la strategia da adottare. La stessa confusione che adesso si intravede nelle decisioni prese per tutti gli altri partiti comunisti europei. E che nell'Europa orientale sarà pagata con la vita da parte di moltissimi dirigenti, in particolare i più staliniani, accusati volta per volta di essere all'origine di ogni singolo fallimento. Lo spettacolo di caos descritto da Mastny è più che avvincente. Teste su teste che ruzzolano ad ogni errore di Stalin in un incubo senza fine nel quale stava per essere inghiottito anche Palmiro Togliatti. Il dissidio tra Zdanov e Malenkov che si conclude con l'ascesa di quest'ultimo e l'uscita di scena del primo. Uscita di scena a cui seguì una morte assai sospetta. Il tutto in un clima quasi di impazzimento generale. Confusione anche nei rapporti con gli ebrei. Nel gennaio del 1948 Stalin fa uccidere per motivi misteriosi in un implausibile incidente automobilistico l'attore yiddish Solomon Mikkoels presidente di quel Comitato ebraico antifascista che era stato messo in piedi da Berija durante la guerra. E' Suslov, il futuro ideologo del partito, che ha convinto senza difficoltà il despota circa la slealtà di quel Comitato. Attorno al quale, negli incubi staliniani, si stava creando addirittura la rete per dar vita ad mia Repubblica ebraica di Crimea. Nel giugno dello stesso anno il leader dei comunisti cecoslovacchi Slànsky e il segretario del Partito comunista israeliano Shmuel Mikunis ottengono dal dittatore georgiano l'autorizzazione a reclutare e ad addestrare ebrei che vadano poi a combattere in Israele. Anche Slànsky farà una brutta fine e il tutto si concluderà con manifestazioni antisemite nella seconda metà dell'anno. A dare il la sarà Ilja Erenburg con un articolo sulla Pravda. Per gli israeliti sono anni di patimenti. «Lugubre conseguenza dell'Olocausto nazi¬ sta, i rari sopravissuti ebrei nell'Europa orientale che non avevano scelto di emigrare come sionisti erano, per questa ragione, particolarmente ansiosi di assimilarsi e perciò aderirono con zelo agli emergenti regimi comunisti», scrive Mastny. E aggiunge: «In quanto rinnegati talora pronti a trattare gli ebrei anche peggio dei gentili, furono spesso gli uomini preferiti da Stalin per lavori particolarmente sporchi, ma furono poi più vulnerabili alle purghe una volta esaurito il loro compito». Ancora e sempre confusione. Negli ultimi mesi del 1948 i comunisti austriaci ottengono da Mosca luce verde alla preparazione di un complicato piano insurrezionale che mette nel conto dettagliatissimamente le possibili reazioni dei socialdemocratici ma non delle forze armate occidentali che stazionavano in quasi tutto il Paese. Per loro fortuna prima che sia messo in atto da Mosca giunge il contrordine. Con un sistema analogamente improvvisato, avventuroso e demenziale vengono fatti fuori tra sospetti e insmuazioni i gruppi dirigenti della resistenza greca e i reduci della guerra civile spagnola. All'inizio di gennaio del 1949 Stalin inaugura il Comecon e confida ai funzionari dell'Europa orientale che i Paesi occidentali, in particolare Francia e Italia, sarebbero stati allontanati degli Stati Uniti perché resi dipendenti dalle materie prime sovietiche. Forse anche per questo il dittatore non disdegnava, fino all'estate del '52 quando si ammalò più gravemente, di incontrare esponenti non comunisti dei due Paesi. Uno degli ultimi, il 17 luglio proprio del '52, fu il leader dei socialisti italiani Pietro Nenni il quale aveva ricevuto il premio Stalin e che reduce da quel colloquio rilasciò dichiarazioni che davano risalto alle grandi novità che il dittatore gli avrebbe annunciato. Anche se, annota l'autore non senza malignità, «probabilmente per la mancanza di reale interesse», il colloquio non fu neppure registrato nell'agenda degli appuntamenti. Dai documenti sul periodo immediatamente precedente e immediatamente successivo alla morte di Stalin viene fuori un'immagine peggiore di Krusciov, colui che tre anni dopo, nel 1956, avrebbe denunciato le malefatte del dittatore. Doppio e intrigante non solo finché fu vivo il tiranno ma anche dopo; ci sono sempre più elementi per ritenere che uscì vincitore dalla contesa per la successione facendo ricorso a metodi non dissimili da quelli del suo predecessore. Ma le conclusioni a cui giunge Mastny riflettendo su questa stagione della quale solo adesso cominciano a conoscersi particolari preziosi, mettono in evidenza, accanto alle atrocità, anche qualche benefico effetto dell'accaduto. A patto che non ci perda la memoria per le tragedie consumate sotto le insegne della falce e martello, si può riconoscere che la guerra fredda ci ha lasciato un'Europa continente pacifico, stabile, pieno di fantasiose articolazioni politiche. Prodotte prevalentemente da chi ebbe l'ingrato compito di fronteggiare l'Urss. Ma formatesi in un contesto di apertura mentale e di interrelazione con il mondo dell'Est che ha avuto e ha ancora un qualche debito con i revisionisti di trent'anni fa. Paolo Mieli Politicamente scorretti e col plauso dell'Urss hanno dato all'America tutte le responsabilità Fu una corrente robusta Sosteneva che la crosta di gelo era frutto dell'imperialismo Oggi l'accesso a nuovi documenti e un saggio di Mastny sfumano le differenze e dicono che il conflitto nacque per l'insicurezza di Stalin O 203 1 7 revisionis Attaccando l'ufficGUREDDA un gile Stalin visto da Levine. A destra Nikita Krusciov e, in basso, Vjenceslav Molotov, ministro degli Esteri sovietico che mirava all'allargamento dell'impero