LA STAZIONE

LA STAZIONE LA STAZIONE ovenzanoensconoestore IA somiglianza sbalorditiva che le narrazioni romanzesche hanno con gli eventi umani reali può nascondere ma non annullare la distanza che, al di là e a dispetto, di qualsiasi enunciazione di poetica, separa la vita umana dalla sua contraffazione letteraria. Nella realtà effettiva un uomo può morire dappertutto e in qualunque modo: in letteratura no, per quanto l'autore possa sforzarsi dì far credere il contrario ai suoi lettori. I luoghi che, ospitano i fatti narrati non sono mai casuali, perché la letteratura (come ha detto Schiller) «non tollera il dito del caso». Esistono insomma luoghi preferenziali dell'accadere letterario, che l'autore sceglie di volta in volta con arbitrio consapevole o inconsapevole, per calcolo o per istinto. Uno di questi luoghi è la stazione ferroviaria. Di pei* sé la stazione è un semplice scenario, e come tale perfettamente ambivalente: può fare da sfondo a una separazione lacerante (di famigliari, di amanti) o a un ricongiungimento, a una partenza o a un arrivo. Non basta: una partenza può chiudere una narrazione, e un arrivo aprirla; ma anche viceversa. Demetrio Pianelli, in fine di romanzo, se ne sta tristemente «in un angolo della sala d'aspetto, seduto sulla sua valigia», ad aspettare «che aprano lo sportello dì terza classe» per salire sul treno e partire; mentre Hanz Castorp dà inizio all'esperienza fatale della Montagna incantata scendendo alla stazioncina di Davos. Per converso Carlo Levi chiude il racconto del suo confino con un ritorno in treno «verso i vigneti del Piemonte», mentre Georg Vittorin, l'allucinato ufficiale di Leo Perutz, parte quasi ad apertura di romanzo dalla stazione di Vienna verso Mosca sconvolta dalla rivoluzione bolscevica, per vendicare un preteso sgarbo ricevuto durante il suo internamento in un campo di prigionia rósso. L'ambivalenza à anche contraddittorietà: alla stazione si parte tra gente che arriva e si arriva tra gente che parte; il distac- co degli uni è il ritrovarsi degli altri; nella confusione e nella calca risalta più netta la solitudine del singolo. Tutto questo fa della stazione un luogo tendenzialmente drammatico, piuttosto che comico, e saturo di atmosfere malaugurose. Gli sportelli dei vagoni «chiusi con impeto», i «colpi violenti (che) scoppiano di vagone in vagone», lo sbuffare della locomotiva «tra il labirinto delle rotaie» svegliano in Corrado Siila la suggestione di un «ferreo destino», che si compirà per lui al suo secondo arrivo in quella stessa stazione. Tragiche senz'altro sono molte scene mdimenticabili di romanzo collocate nelle stazioni o nelle loro vicinanze. Anna Karenina vi compie il suicidio, dopo un crescendo di pensieri che l'allontanano dal viavai dell'atrio verso l'estremità del marciapiede: dove, al sopraggiungere dì un treno («massa enorme e spietata»), «comprende quel che deve fare» e vi si getta sotto. Anche il protagonista del non ignorabile Vortice di Alfredo Oriani si uccide alla maniera di Anna: ma, più. cupo e metodico di lei, evita la stazione scegliendo un punto isolato della linea ferroviaria. Ancora più terribili di squallore sono i gabinetti della stazione centrale di Milano, dentro i quali si è prostituito e ora muore per eccesso di droga il disperato personaggio monologante di In exitu. Soltanto uno o al più due casi saprei nominare di situazione, non dico comica, ma quanto meno grottesca e paradossale, avente per teatro una stazione: la scena in cui Mattia Pascal cambia identità e vita, e al passeggero che lo invita a risalire in carrozza grida la gaia (e illusoria) metafora: «Cambio treno!». E.all'ambito del grottesco può ascriversi anche la breve scena in cui Zeno e il cognato accolgono alla stazione Ada, la bella ora sfigurata dal morbo di Basedow. Chi enuncia lucidamente l'insopprimibile duplicità delle stazioni è Proust: «questi luoghi meravigliosi... sono insieme luoghi tragici». L'esordio del celebre passo ha grande efficacia, anche se purtroppo lo indebolisce non poco il carattere leggermente prosaico dell'argomentazione successiva: che il miracolo dell'aprirsi di paesi, fino allora esistiti soltanto nel pensiero, impone la rinuncia alla stanza famigliare e l'abbandono di «ogni speranza di rientrare a dormire a casa propria». Nondimeno, l'impossibilità radicale insita nell'atto «terribile e solenne» del partire con la ferrovia vi è indicata con grande chiarezza. Le stazioni sarebbero allora luoghi dell'impossibilità? Di un'impossibilità, sembra suggerire Proust, non solo letteraria ma anche umana e concreta? Credo di sì, ma in due sensi ben distinti. Se penso ai grandi atrii ferroviari - inondati, di primo mattino, dai pendolari che raggiungono i treni con fretta silenziosa, gli occhi un po' vitrei di sonno e la bocca impastata dal caffè trangugiato al bar; e poi di nuovo, verso sera, sciamanti della stessa folla, diversamente stanca e diversamente frettolosa, che non vede l'ora di arrivare a casa -, le stazioni mi appaiono un'immagine ossessiva della ripetizione: il sommario di una vita umana costretta in quella specie di eterno ritorno dell'uguale che è ogni attività diretta alla sopravvivenza. Un'impossibilità, certo, di alterare abitudini e comportamenti; ma anche un comodo riparo dai rischi dell'imprevisto e dell'ignoto. Il secondo senso però, l'altra impossibilità a cui penso, è quella che ha angustiato la mia adolescenza spingendomi tante volte, nelle mie passeggiate inquiete e sempre solitarie, alla stazione Brignole... «Andare via! Ecco che cosa desideravo; eppure non c'era dove né quando»; la partenza di quei treni che vedevo sfilare lenti e sonanti sulle rotaie era per me la possibilità indef inita di sottrarmi alla vita quotidiana; avrei forse potuto trovarla anche al porto, tra le navi che salpavano: ma preferivo i treni, forse soltanto perché erano più a portata di mano e andavano e sparivano al mio sguardo senza tante cerimonie. Luoghi della trascendenza, questo sono le stazioni; e in questo consiste il loro fascino. Sennonché la trascendenza (la mia mente di ragazzo bastava a capirlo) può esistere solo come desiderio dell'irraggiungibile, come aspirazione mai appagata. Sapevo già allora, e in seguito avrei sperimentato fino alla noia, che nemmeno partendo potevo «lasciare indietro quella parte più interna di me, quell'insistente, lucido fastidio di pensieri che ormai mi costituiva». Cesare De Marchi pp[] le letture Emilio De Marchi, Demetrio Pianéti ♦ Thomas Mann, La montagna incantata ♦ Carlo Levi, Cristo si è firmato a Eboli Leo Perutz, Tempi di spettri ♦ Antonio Fogazzaro, Malombra Lev Tolstoj,.inna Karcnina ♦ Alfredo Orioni, Vortice Giovanni Tehtori, In exitu ♦ Luigi Pirandello, Il fa Mattia Pastai ♦ Italo Svevo, La coscienza di Zeno ♦ Marcel Proust,/! lombrv des jvunes Jilles en Jleur in .'1 /(/ recherche ài temps perdu ♦ Cesare De Marchi, // bado della maestra LA POESIA Oh quei fanali come s'inseguono accidiosi là dietro gli alberi, tra i rami stillanti di pioggia sbadigliando la luce sul fango. Da «La stazione» di Giosuè Carducci LA STAZIONE voci Voci d'estate, Racconti che scandiranno l'estate di Tuttolibri fino al 27 agosto. Dopo «L'attesa» di Niccolò Ammaniti e «La partenza» di Dario Voltolini, oggi è la volta di Cesare De Marchi con «La stazione». Giovedì prossimo toccherà a Guido Conti con «La tavola». le letture Emilio De Marchi, Demetrio Pianéti ♦ Thomas Mann, La montagna incantata ♦ Carlo Levi, Cristo si è firmato a Eboli Leo Perutz, Tempi di spettri ♦ Antonio Fogazzaro, Malombra Lev Tolstoj,.inna Karcnina ♦ Alfredo Orioni, Vortice Giovanni Tehtori, In exitu ♦ Luigi Pirandello, Il fa Mattia Pastai ♦ Italo Svevo, La coscienza di Zeno ♦ Marcel Proust,/! lombrv des jvunes Jilles en Jleur in .'1 /(/ recherche ài temps perdu ♦ Cesare De Marchi, // bado della maestra LA POESIA Oh quei fanali come s'inseguono accidiosi là dietro gli alberi, tra i rami stillanti di pioggia sbadigliando la luce sul fango. Da «La stazione» di Giosuè Carducci

Luoghi citati: Eboli, Milano, Mosca, Piemonte, Vienna