Senza vera deregulation privatizzare non basta

Senza vera deregulation privatizzare non basta Senza vera deregulation privatizzare non basta SONO cresciuti, nelle ultime settimane, gli attacchi al governo in materia di gestione e privatizzazione delle aziende pubbliche. Francesco Giavazzi, con l'autorevolezza che gli è propria, rimprovera al governo di avere, di fatto, bloccato il processo di privatizzazione limitandosi a collocare sul mercato la maggioranza del capitale di Telecom Italia. Questo punto di vista sembra fondarsi essenzialmente su due concetti: 1. Si può parlare di privatizzazione (e la privatizzazione dispiega i suoi effetti) solamente quando viene ceduto il controllo di una società; 2. Le aziende a controllo pubblico sono gestite peggio (e pertanto producono meno valore) di quelle private. Si tratta di affermazioni per alcuni aspetti non condivisibui. Innanzi tutto, dove sta il significato della privatizzazione? Solamente nel trasferimento della proprietà dallo Stato ad uno o più privati? Ovvero anche nel far sentire alle aziende, per così dire, il «morso» del mercato finanziario? Il collocamento in Borsa di quote di minoranza, meglio se di una certa consistenza, di società a controllo pubblico costringe un management capace e indipendente a confrontarsi tutti i giorni con la quotazione delle azioni (lo si costringerebbe ancora di più se fosse possibile usare quelle azioni per compiere alleanze ed acquisizioni...) ed a rispondere ogni mese a stuoli di agguerriti analisti il cui mestiere è fare le pulci alle strategie ed ai conti della società. Valgano per tutti gli esempi di società come Aeroporti di Roma e Finmeccanica, mentre sinceramente non credo che Eni sarebbe gestita in modo differente se il Tesoro non possedesse nemmeno un'azione. Non è nemmeno detto che le aziende pubbliche siano, in generale, gestite peggio di quelle private. In Italia, il discrimine tra la buona e la cattiva gestione passa, prima ancora che per la proprietà, attraverso il livello di concorrenza dei mercati in cui le aziende operano. E' la liberalizzazione del mercato che stimola l'innovazione e la ricerca dell'efficienza. E' lì che bisogna incidere più che altrove. Telecom si è preoccupata del suo livello di competitività sulla telefonia mobile non perché si privatizzava ma perché è arrivata Omnitel; ed inizia ora a preoccuparsi della telefonia fissa grazie ad Infostrada e, domani, a Wind. Enel ha smesso di essere un elefante (che, guarda caso, era anche il suo vecchio simbolo) sonnolento grazie all'avvio della riforma del mercato elettrico. La liberalizzazione nel trasporto dei pacchi e, in futuro, della corrispondenza, ha dato la sveglia alle Poste e le ha obbligate a muoversi per non farsi tagliare definitivamente fuori dai settori più redditizi del mercato. L'effettiva creazione di valore derivante da una privatizzazione, viceversa, non è automatica. Dipende dalle modalità con le quali l'operazione viene realizzata. Se la privatizzazione (di un'azienda che opera in un mercato libero) consentisse di creare una struttura azionaria «contendibile», allora si realizzerebbe l'«ottimo»: liberalizzazione del controllo di una società attiva in un mercato liberalizzato. Diverso sarebbe il caso in cui l'operazione trasferisse (anche attraverso la creazione di nuclei stabili) il controllo ad azionisti «strategici» i cui interessi potrebbero in parte divergere da quelli degli investitori istituzionali o finanziari: la struttura proprietaria del sistema industriale italiano è quella che è. E dove essa tendesse a replicarsi per le aziende da privatizzare allora mi domanderei, in modo provocatorio, se a «questo» azionariato privato non sia preferibile un «controllo pubblico» fatto di quotazioni in Borsa e manager indipendenti, accompagnato da un liberalizzazione che rivoluzioni profondamente i mercati. Parliamo del mercato della telefonia, che si sta aprendo anche se con ritardo, del lungo e doloroso parto del mercato libero dell'energia elettrica, dei trasporti ferroviari, del canottaggio e dei trasporti aerei, dove le tappe del processo di liberalizzazione sono imposte dall'Unione Europea. E parliamo infine ed evidentemente, del mercato del lavoro e delle professioni; la cui necessaria liberalizzazione non sarà (politicamente) praticabile e (socialmente) giustificabile sino a quando non saranno state eliminate quelle incrostazioni normative che ancora oggi garantiscono alle aziende rendite di posizione e privilegi non più accettabili. Alessandro Pansa isa^J

Persone citate: Alessandro Pansa, Francesco Giavazzi

Luoghi citati: Infostrada, Italia, Roma