E in aula volò un «vaffa» di Filippo Ceccarelli
E in aula volò un «vaffa» Decade un'onorevole tradizione di insulti parlamentari E in aula volò un «vaffa» L« ROMA HA detto? Non l'ha detto? S'è capito? Non s'è capito? In aula? In tv? Sale comunque il livello della politica e del giornalismo in seguito al mistero prodiano del «vaffa». Insulto troncato e bofonchiato che alcuni senatori di Forza Italia sono sicuri di aver ascoltato in aula, rivolto dal presidente del Consiglio al capogruppo berlusconiano La Loggia che gli stava rinfacciando qualcosa. Di qui l'improperio mozzato e d'incerta sonorità che in ogni caso il direttore del Tg4 Emilio Fede ha prontamente mandato in onda, per ben due volte, invitando i telespettatori a seguire il movimento delle labbra del premier a riprova di impulsiva sguaiataggine. U quale premier, però, subito informato di un'imminente interrogazione parlamentare sull'argomento, ha smentito di aver pronunciato quél «vaffa», liquidando il tutto con un eloquente e sbrigativo:; «Non diciamo sciocchezze». E sarebbe senz'altro cosa saggia non dire - e non scrivere, anche - sciocchezze, se la vicenda minima del «vaffa» non offrisse pure lo spunto per un paio di considerazioni sull'evoluzione, diciamo, del costume politico-parlamentare. La prima, di natura tecnologica, riguarda ormai la potenza per lo più minatoria della tv e delle riprese d'aula, che hanno sostituito il pericolo dei teleobiettivi. Per cui se gli onorevoli di ieri avevano paura di farsi fotografare con le dita nel naso (donde una serie di restrizioni ai fotoreporter), quelli di oggi hanno da temere addirittura per il movimento delle loro stesse labbra. Prodi è infatti il secondo presidente del Consiglio che viene pizzicato dalle telecamere in flagrante (anche se mai provato scientificamente) turpiloquio. Nella primavera del 1995, interrotto da un avversario, a Dini scappò un suono, una specie di rabbioso gorgoglìo che fu pressoché universalmente interpretato - con il contributo determinante di Striscia la notizia - come un esclamativo «cazzo!». La seconda considerazione, già più malinconica, ha invece a che fare con il linguaggio e mai come oggi spinge a riflettere sull'inesorabile decadenza dell'arte di offendere. L'eventuale «vaffa», in questo senso, con quel tanto di reciso, di trattenuto, di «vorrei-ma-non-posso» che fiaccamente si trascina dietro, suona come il più indegno epigono di una onorevole tradizione di insulti parlamentari. I migliori, è ovvio, erano quelli, prima ancora che personalizzati, «su misura». E tuttavia lievemente surreali, oltre che spontanei. Il canto del cigno di questo stile creativo si fa risalire alla disputa cosiddetta «delle comari», con Formica che definì appunto Andreatta «una comare che si sente il Lord dello Scacchiere e usa un linguaggio da ballatoio» e Andreatta che definì Formica «un trafelato commercialista di Bari esperto in fallimenti». Annichilisce, al confronto, il plausibile «vaffa» di ieri. Parolaccia senza forza, senza colore, senza tensione, non solo venuta male, ma di standardizzata e semplifìcatissima volgarità. Filippo Ceccarelli Il capogruppo al Senato di Forza Italia Enrico La Loggia
Persone citate: Andreatta, Dini, Emilio Fede, Enrico La Loggia, Formica, Prodi
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