Ma il grande alleato non ci sta di Maurizio Molinari

Ma il grande alleato non ci sta Ma il grande alleato non ci sta Gli Usa: un regalo a tutti i dittatori ROMA. H giorno dopo la sconfitta in assemblea plenaria la delegazione americana tira le somme della missione fallita mentre a Washington il portavoce del Dipartimento di Stato, James Rubin, definisce il Tribunale penale internazionale «uno strumento non efficace» esprimendo il timore che «lo statuto approvato renda possibili persecuzioni politiche». Parole che pesano e a spiegarne il senso sono gli stretti collaboratori del capo della delegazione a Roma, David Scheffer, che invitano a non sottovalutare i motivi del «no» di Washington, perché «non si tratta di un'ostilità preconcetta alla Corte» ma del timore che «possa essere strumentalizzata da parte di dittatori e despoti di mezzo mondo». «Si tratta di questioni molto serie - spiega uno di loro - perché hanno a che vedere con l'impegno degli Stati Uniti per la pace sul pianeta», ovvero non solo la presenza di truppe all'estero sotto bandiera Usa ma anche il sostegno americano alle missioni di peacekeeping ai quattro angoli della Terra sotto gli auspici di Onu e Nato. Due gli esempi più ricorrenti per spiegare «cosa è successo a Roma». Primo: in forza del testo approvato un dittatore, come il defunto Poi Pot, potrà denunciare per crimini di guerra un soldato straniero impegnato in operazioni di peacekeeping internazionale nel suo Paese per farne un caso politico a proprio vantaggio. Secondo: la Libia, che vuole processare per crimini contro l'umanità l'ex presidente Ronald Reagan, potrà chiedere alla Corte di interessarsi del caso spingendo la stessa giustizia Usa a collaborare. Insomma la Corte rischia di diventare una mina vagante contro l'impiego di forze di pace, a cui l'America dà pressoché ovunque un contributo decisivo in termini di uomini e mezzi. «Il testo non tiene conto - ha sintetizzato Rubin - del ruolo americano nella ricerca dei criminali di guerra, nell'istituzione dei tribunali per l'ex Jugoslavia ed il Ruanda, nel mantenimento della pace nel mondo». Ecco perché gli assistenti di Scheffer anticipano che «a questo punto gli Stati Uniti dovranno esaminare con gran cura l'impatto della nascita della Corte sui propri interessi e sulla presenza di soldati americani in contingenti all'estero impegnati in aree di crisi». La task force americana d'altra parte si è battuta senza risparmi per cinque settimane su tre fronti: in seno alla conferenza ha difeso le posizioni di Washington; con gli inviati dell'influente commissione Esteri del Senato Usa ha approfondito i compromessi possibili; con gli interlocutori telefonici del Pentagono e del Dipartimento di Stato ha valutato fino all'ultimo se firmare o no l'atto finale. Il delicato triangolo negoziale ha sfiorato il «sì» finale. «Giovedì - racconta un rappresentante Usa - eravamo sul punto di firmare, ma tutto è svanito a causa del disaccordo sulla giurisdizione. Ci troviamo così con l'amarezza di constatare che non abbiamo potuto aderire». Maurizio Molinari

Persone citate: David Scheffer, James Rubin, Ronald Reagan, Scheffer