La vita del record che deve morire

La vita del record che deve morire Il primato del fuori campo imbattuto dal '61: la grande caccia per entrare nel mito La vita del record che deve morire Sogni e scommesse dietro la pallina del baseball NEW YORK DAL NOSTRO INVIATO C'è un solo evento, secondo gli americani, per cui il 1998 potrebbe essere ricordato come un anno storico: questa dovrebbe essere la data in cui verrà stabilito il nuovo record di fuori campo, imbattuto dal '61. Padronissimi di dire: per carità, il baseball! Ma in questa sfida a un primato inventato c'è tutta la mentalità di un Paese che con i numeri interpreta gli avvenimenti e con la fantasia crea gli appuntamenti. In questa corsa che attraversa un secolo ci sono storie di uomini e delle loro paure, quando la leggenda che hanno creato a mazzate gli si è rivoltata contro, pretendendo ancora un colpo per iscriversi negli annali e finendo per ucciderli a distanza, letteralmente. A osservarla ci sono le menti più raffinate del Paese, tutti ad annotare statistiche sui taccuini e dire che sì, ce la farà, è l'anno buono: Big Mac batterà il record che fu di Roger Maris e Babe Ruth, incasserà miliardi di dollari e, soprattutto, farà del tempo che resta da qui all'autunno, un lungo brivido che s'incresperà sulla schiena dell'America ogni volta che la pallina volerà oltre il diamante, atterrando sulle tribune o, come nel film «Il Migliore», tratto da Malamud, con Robert Redford, spaccherà i riflettori inondando il campo di luce. L'eredità del Bambino. Il record che deve morire ha avuto una lunga vita. Il primo a portarlo quota 60 fu «Babe Ruth» nel 1927. Dopo aver sparato la fatidica palla urlò: «Sessanta! Sessanta! E ora che qualche figlio di puttana ci provi, a fare meglio». Occorsero 24 anni e l'uomo che riuscì ci rimise i capelli, la serenità e, probabilmente, la vita. Battere un fuoricampo è un'azione spettacolare. Il pubblico si entusiasma, gli avversari sono resi inermi, ma non è questo che rende un giocatore eccezionale. Joe Di Maggio mandava poche palle in tribuna, ma le colpiva tutte, o quasi. Il fuoricampo ha una superiorità estetica, nella sua esecuzione si attua uno di quegli incanti che vanno decifrati sotto la superficie. Robert Adair, professore di fisica alla Yale University, me lo spiega inserendo una videocassetta e bloccandola mentre il battitore sta per eseguire il colpo: «Ecco - dice ec citandosi - contatto! Vede, il cor po s'immobilizza, la rotazione si blocca, la gamba d'appoggio è rigida, tutta l'energia del giocatore è trasferita alla cima della mazza». Il nastro riparte e la palla viaggia verso le stelle. Come accadeva quando la colpiva Roger Maris. La stagione era quella del '61, la casacca quella dei New York Yankees, condivisa con Mickey Mantle, successore di Joe Di Maggio, a cui mai fu perdo nato di non essere lui. Lo amarono solo quando dalla sua scia sbucò questo Maris, arrivato da Fargo, North Dakota, che nessuno sapeva dove fosse, perché i fratelli Coen non ci avevano ancora girato un film. Ad agosto M&M, Mantle e Maris, raggiunsero i 50 fuoricampo a testa. Tutti capirono che il record di «Babe» Ruth era a rischio. Nessuno voleva lo battesse Maris, un «giocatore qualunque». Il 9 settembre toccò quota 56 e, a un giornalista che gli chiedeva: «Perché batte così forte?» rispose, correttamente ma inopportunamente: «Lei dev'essere un bell'idiota». Rimase solo contro tutti: contro i fans di Babe Ruth e di Mickey Mantle, contro la stampa e i suoi stessi tifosi, contro il lanciatore a cui sparò in cielo il fuoricampo 59. Alla vigilia del numero 60 chiese al presiden¬ te di non giocare più. Si tolse il cappellino e fece vedere che, per lo stress, gli erano caduti quasi tutti i capelli. Eguagliò il record a Baltimora e andò a chiedere scusa alla vedova Ruth. Lo superò a New York, una fredda sera di ottobre. Fece il giro di campo e corse in panchina. Niente conferenza stampa. Giocò altri cinque anni. Non mirò mai alle stelle, divenne più regolare e B»eno- esplosivo. Quando sivritirò^disse:, «Mi..sarei divertito di più senza il record, mi ha portato solo dei gran mal di testa». Morì di cancro al cervello all'età di 51 anni. La sfida di Big Mac. E ora tocca a Marc McGwire, detto Big Mac, battitore dei St. Louis Cardinals. In realtà, i numeri per superare il «muro di Maris» li avrebbero in tre: oltre a McGwire, Ken Griffey Jr. e Sammy Sosa. Prima dell'intervallo per l'Ali Star Game, McGwire era a quota 37, Griffey a 35, Sosa a 33. Secondo le proiezioni pubblicate dal «New York Times» in prima pagina, continuando così Big Mac finirebbe a 70 fuoricampo, Griffey a 64, Sosa a 61. Dopo 90 partite, Big Mac è già a 40, cifra che Maris raggiunse solo alla 96ma gara. Ce la può fare. Dovrebbe e lo meriterebbe. Big Mac è un bel tipo, un Magnum P.I. con i capelli rossi. Nessuno si aspettava che diventasse un giocatore professionista, perché ci vedeva poco. Mise le lenti a contatto e le porta tuttora. Nella sua rotazione c'è un «buco» in cui una palla veloce può infilarsi, ma se non lo è abbastanza, lui spara. Più forte di chiunque altro nella storia: ha perfino ammaccato un tabellone segnapunti. Nel '94 una serie di infortuni lo spinse sujj^orjp del ritiro. Aveva già fattp donknàa da poliziotto, poi pensò al padre dentista, al quale la polio aveva impedito ogni esperienza sportiva, e tornò in campo, riducendo anche il «buco» in cui la palla può passare. E' separato e padre di un bambino di 10 anni di nome Matthew. Prima dell'ultimo match il ragazzino gli ha baciato la mazza poi è tornato dalla madre in California. Big Mac gli ha dedicato i due fuori campo «perché il bacio non è mai andato via». Ha il temperamento giusto: è forte, generoso (devolve parte dell'ingaggio alla lotta contro gli abusi sui minori), non si fa stressare e il record lo vuole, ma ci dorme su la notte. Poi, a differenza di Griffey è bianco. Babe Ruth aveva un altro record: quello di fuori campo complessivi in carriera (714 in 2503 incontri). Quan¬ do il nero Hank Aaron cominciò ad avvicinarsi, ricevette minacce di morte e dovette assumere una guardia del corpo (poi arrivò a 755, ma in 3298 incontri). Nessuno minaccia Griffey, ma tutti tifano per Big Mac. Ce la farà? Lo chiedo, al telefono a Chicago, a Larry Garner, esperto di scienze politiche e baseball,' uno- che, méntre studiava in Europa, si faceva il Brennero in Vespa per andare da Vienna a Torino, dove giocava nel fine settimana. Risponde: «Scommetteri su di lui. E' la stagione giusta, quella dei miracoli: lanciatori che fanno il "perfect game" (nove innings senza concedere una sola battuta, ndr), battitori che sparano fuoricampo. Il numero di squadre è cresciuto, il livello medio si è abbassato, chi eccelle incontra avversari più scarsi e nello squilibrio fornisce prestazioni super. La sfida al record ha riportato la gente negli stadi e generato un vortice di miliardi: stavolta perfino il lanciatore che consentirà il fatidico fuoricampo sessantadue diventerà una star dei talk show, anche il perdente può passare alla cassa. Se vince McGwire, vinciamo tutti». Un Paese dà i numeri. E cesi, ogni giorno fioriscono nuove proiezioni e si rileggono le cifre passate per capire se l'evento accadrà. E' questa l'unicità del baseball: le statistiche non tradiscono, i numeri permettono di ricostruire una partita e capirne le svolte, di ritrarre un giocatore e decifrarne debolezze e punti di forza. E' questo che rende inconcepibile il calcio per gli americani. Loro cercano di applicargli le statistiche, ma l'equazione non si risolve, perché se traduci Zidane in numeri (due soli gol, un'espulsione, tre palle recuperate e via così) non ti spieghi nulla, manca l'immanenza di pericolo che trascina con sé mentre mulina palla per il campo, inducendo allenatori in decomposizione a sacrificargli un giocatore appresso e ne fa, infine, il giustiziere del Brasile. Poi, questo non toghe che è perfino ridicolo vedere gli europei cadere nel luogo comune «il baseball è un intervallo tra un hot dog e l'altro» e gli americani sbadigliare davanti ai Mondiali. Con tutta la noia della vita, bisogna salvare lo sport. E la grandezza dello spirito americano è di averne esaltato la bellezza con i numeri, perché la creazione di un record è la costruzione di un evento, generato dalla fantasia e atteso con ansia e impazienza degna di migliori età. La preservazione deU'eq^iilibrio del baseball è qualcosa che ha a che fare con l'evoluzione delle specie, come spiega il paleontologo Stephen Gould nel suo libro «Perché {;li alberi non crescono fjno al cieo», dove sostiene che questo sport sopravvive solo con il bilanciamento tra le due specie battito ri-lanciatori, difeso nel tempo con vari accorgimenti (modifica del l'altezza della pedana di lancio, allargamento o restrizione della zona in cui la palla può essere colpita). L'esplosione di tanti superbattitori impone nuovi «interven ti legislativi» per non arrivare al l'estinzione dei sopraffatti lanciatori. Nessuna metafora, semplici manovre applicabili alla società, anzichenò. Nell'attesa, ci si prepara a vive re un'estate da bruciare in un momento che sarà ricordato per ge nerazioni. E se neanche questo vi rende interessante il baseball, po tete sempre provare a vedere un incontro della Minor League dove gioca Jim Abbott, il lanciatore monco. C'è qualche calciatore senza una gamba nella serie B italiana? Gabriele Romagnoli Il campione precedente «Non mi ha reso felice» Le menti più raffinate del Paese impegnate nelle proiezioni statistiche e nelle previsioni Il candidato principe è Big Mac: «spara» più forte di tutti Ha perfino ammaccato un tabellone segnapunti Sammy Sosa, uno dei rivali di Big Mac per la conquista del record del fuori campo Un campo di baseball: l'America sogna il record del secolo imato del fuori campo imbattuto ne precedente ha reso felice» e dal '61: la g più raffinate del Paese te nelle proiezioni e e nelle previsioni Il caè Bipiù Ha pun tsegn A destra Big Mac, l'uomo pronto a battere il record