«A fra', che te serve» Ma non fu Tangentopoli di Paolo Guzzanti

«A fra', che te serve» Ma non fu Tangentopoli «A fra', che te serve» Ma non fu Tangentopoli EDENDO quanta passione civile animi il dibattito che segue le condanne di Berlusconi e la questione della commissione parlamentare d'inchiesta su Tangentopoli, mi torna in mente una mia esperienza, passata - nel suo piccolo alla storia minore di questo Paese sotto un titolo orecchiabile: «A Fra', che te serve?». Ed è ancora istruttiva, sicché mi permetto di ricordarla ai lettori più giovani. Era l'epoca del compromesso storico e l'Italia era governata dall'intesa AndreottiBerlinguer, i cui portavoce erano Franco Evangelisti, ministro della Marina Mercantile, e Tonino Tato, amico e factotum del segretario del Pei. Io lavoravo allora a «Repubblica» e Scalfari mi mandò da Evangelisti per una intervista. Tema: certi assegni equivoci dell'Italcasse. Svolgimento: Evangelisti mi ordinò di riporre il taccuino («Te lo dico io quando cominciamo l'intervista») e spiegò: «Ahò, qui avemo rubbato tutti, dar primo all'ultimo, de tutti li partiti. Te faccio n'esempio: vie Caltagironé, che è un armeo mio, tira forrer libbretto dell assegni e me chiede: A Fra' che te serve? Io je dico la cifra, e |pi la scxiv&,Qpito? Poi va da quell'artri, e da quell'altri ancora... Ecco, mo' cominciamo l'intervista vera. Tu me chiedi de st'assegni e io te dico: è vero, esiste una questione de trasparenza che bla bla...». Io saltai il bla bla e scrissi la parte più interessante, quella su quel «A Fra', che te serve?». L'intervista destò stupore per il tono romanesco all'amatriciana, il ministro do vette dimettersi per decenza, ebbe poi un malore e morì di stupore: che male ho fatto, mi chiese per telefono, dicendo ciò che tutti sapevano e tutti facevano? Il male consisteva nell'avere sbagliato i tempi. Non era ancora quello il momento delle confessioni. Prova ne sia che non ci fu un solo magistrato che sentisse il dovere di mandare un avviso di garanzia. Nulla. Il cronista parlamentare Em manuele Milano, che alla Rai ■ rappresentava allora il Pei, I dette un gran da fare per comu- nicare agli italiani che non era successo niente e che i finanziamenti illeciti ai partiti erano ben povera e ben nota cosa. Ci fu una simpatica corsa a insabbiare da parte di tutti, De e Pei in testa, tranne, guarda un po' i casi della storia, da parte del Psi di Craxi e di Formica, allora all'inizio del rampantismo, il cui Centro Studi «Mondo Operaio» era diretto dal giovane filosofo Paolo Flores D'Arcais. Facemmo un bel dibattito, il mio racconto fu allora ripreso dai telegiornali e non successe niente. Lapolitique d'ahord, avrebbe detto Pietro Nenni. E la politica, allora, diceva che questa faccenda di concussioni e corruzioni di cui l'Italia era inquinata dovevasi considerare secondaria e inopportuna. Mancavano allora più di dieci anni alla rivoluzione di velluto e delle manette. Il Pei prendeva un -pacco di miliardi in dovari dal signor Ponomariov à Mosca rilasciando regolare ricevuta di un reato, la De incassava quattrini a destra e manca all'interno e all'estero: era l'Italia dello scandalo Lockheed, basato appunto su una serie di mazzette abbinate alla lotteria delle commesse militari, che alla fine spedì in prigione il segretario del Psdi Tanassi, una figura minore del panorama, ma che aveva dichiarato spudoratamente: «Accusare me di corruzione sarebbe come accusare il Papa di molestare le ragazzine». Insomma, tutta questa furia ghigliottinara di oggi, se comparata alla bonaccia insabbiosa di ieri, suona falsa alle orecchie del cronista. Sa di mosca cocchiera, di miles gloriosus, di imbroglio e fiasco: due parole queste ultime che il mondo intero usa in italiano, come pizza e «'0 sole mio». Paolo Guzzanti nti |

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