Un funerale per seppellire Podio di Domenico Quirico

Un funerale per seppellire Podio Un funerale per seppellire Podio E i nobili discendenti scattano foto come turisti REPORTAGE IL GASSATO CHE RITORNA SAN PIETROBURGO DAL NOSTRO INVIATO Cinque piccole bare, come quelle per i funerali dei bambini. Bastano cinque piccole urne di rude quercia del Caucaso per contenere 80 anni di simboli, maschere, enigmi, allusioni, metafore. Chissà come Nicola Romanov avrebbe raccontato nel suo diario il ritorno a San Pietroburgo e l'ultimo tardivo inchino dei suoi sudditi. Lui che annotava con nevrotica asciuttezza gli avvenimenti più insignificanti della giornata di imperatore e poi non dedicava una riga al massacro che avviò nel 1905 la più grande tempesta del secolo. Forse ieri anche una delle figure più patetiche della storia avrebbe capito di essere stata, per una volta, simbolicamente, all'altezza del suo destino. Quando l'aereo che riporta va i resti dalla famiglia imperiale da EkateifflmÌHg àWav'érsb* le imMehsità della Russia dove mille miglia sono una piccola distanza è comparso nel cielo, gli operai ancora si affannavano negli ultimi ritocchi. Soldati e dignitari mimavano per l'ultima volta u cerimoniale arrugginito, usato 103 anni fa per dire addio al padre di Nicola, Alessandro III, autocrate sanguigno e soddisfatto, così diverso dalle estenuate mediocrità dell'erede. Sotto un cielo tiepolesco, ac cudito da un vento gagliardo, stava già in attesa l'esercito dei parenti, 60 Romanov rastrellati in tutto il mondo da un quieto destino di oblio e di borghesissima normalità per recitare un po' di storia. Antichi patriarchi rugosi, signore imbellettate e dai vistosi cappelli, ragazzini biondissimi: attori fuori ruolo, se riuscivano a scattare fotografie al passaggio delle piccole bare come un gruppo di turisti. Fino all'ultimo, a un passo dalla stuoia rossa della cerimonia, sono stati impegnati in un feroce dibattito tra sopravvissuti, incapaci di scollarsi di dosso le beghe dinastiche, i regni di precedenza e di muffa. Grottesche miserie se paragonate al destino di Nicola II e dei suoi, vittime che hanno impegnato 80 anni a morire, tenuti in ostaggio dalla storia, condannati ad un perpetuo vagabondaggio penitenziale. Alla vigilia della partenza da Ekaterinburg gli esperti si sono ancora accaniti su quei miseri resti per studiare, analizzare, ripro¬ vare. Eppure i test del Dna eseguiti in America e in Inghilterra sfiorano la certezza assoluta che la scienza comunque non può dare: in quelle bare ci sono davvero gli ultimi sovrani di Russia e i loro servitori massacrati dai bolscevichi. Ma qui trovi intellettuali che, seriamente, ti garantiscono che tutta questa vicenda è una montatura ebraica per screditare e indebolire l'anima russa. E la Chiesa ufficiale, impegnata in una guerra spietata con gli ortodossi della diaspora, si barrica sulla trincea del dubbio per non perdere altra credibilità ed altri federi. Le bare sono così esigue che per sollevarle hanno dovuto appoggiarle su lettighe che i quattro soldati della guardia d'onore sollevano, ogni volta, con una difficile e pericolosa acrobazia. E ogni volta i feretri oscillano, traballano, rischiano di precipitare al suolo penosamente. Passano per primi i due servitori, poi il cuoco, il medico che decise di condividere fino in fondò il destino di quelli che, nel dolore, erano diventati suoi amici. M'inizio pensavano, sciaguratamente, di seppellirli nel cortile della cattedrale: alla fine, per fortuna, hanno ottenuto il diritto di condividere il tumulo dei loro padroni. Passano poi la piccola Anastasia, la sventata Tatiana, la dolce Olga. Mancano Alessio e Maria ancora prigionieri del loro sanguinoso mistero. Si spegne il tenue sibilo della marcia funebre; pifferi e tamburi innescano il turbine spumeggiante della marcia imperiale per accompagnare Nicola e la moglie Alessandra verso i bus lucenti della sfilata per le vie della città. San Pietroburgo non ha fatto che morire goccia a goccia da quando il crollo dello zarismo le tolse il rango di capitale. Oggi, in mano ad un governatore, Yakovlev, uno dei tanti che si è accodato a questo funerale come a un lussuoso affare, è un caos di tribolazione: l'industria militare è defunta, la città è diventata la mecca della diffusione della droga, cresce l'astio verso Mosca, avida, che.„pjqn_ppol;zza banche, investimenti stranieri, tasse. Eppure nell'atmosfera di San Pietroburgo resta qualcosa di inafferrabile, un fluido collettivo, un'anima fatta di forza e di infehcità, di paralisi interiore e di mobilità esteriore. Sfila il corteo dello zar attraverso le strade, guidato dall'esile, aguzzo campanile della chièsa di Pietro e Paolo, come un punto di esclamazione. L'Ermitage, l'Ammiragliato, Sant'Isacco, il palazzo Marinskij sono lapidi tombali della storia. I palazzi e i luoghi si srotolano come una pittura cinese, una ripetizione decorativa senza fine; eroi bolscevichi dal profilo grifagno continuano a presidiare i muri; lapidi ricordano altre antiche tragedie: qui si uccise Esenin, qui Majakovskij giocò l'ultima beffa al destino, qui i killer di Stalin trascinarono via il generale Tukachevskij. Ma la folla, purtroppo, non c'è, solo un rivoletto che una fila ininterrotta di soldati e poliziotti certo non fatica a controllare. Il sortilegio del ricordo tra la gente non è scattato, un avvenimenti che ha cambiato'il secolo; in fondo, appare a molti come un piccolo misfatto oscuro, compiuto in fretta e furia, di primo mattino, nel cuore di un Paese che vide anche allora appena turbata la sua quotidiana tribolazione. La città nelle sue silenziose vastità appare indifferente. «Eltsin dovrebbe pensare a pagare le pensioni piuttosto che a seppellire lo zar - dice un vecchio -, dietro tutto questo c'è solo un calcolo politico meschino e non nobiltà d'animo. Non si sopravvive al Cremlino con il buon cuore». E un ragazzo: «A scuola ci insegnano che il giudizio su Nicola II è sospeso, ognuno può pensare cosa vuole. E forse era davvero più una vittima che un carnefice. Ma che importa?». Nella chiesa di Pietro e Paolo, dove hanno deposto le bare in attesa dei funerali di oggi, nel geometrico brulichio dell'oro e degli stucchi, accanto alle tombe di zar e di principi nella lunga fila dei secoli, tutto è diverso. C'è un raccoglimento che toglie il respiro, un'essenzialità negli aspetti delle cose, una luce astratta ed immobile. La sincerità finalmente si scioglie dalle reti del dolore organizzato. Eppure fino all'ultimo la chiesa è stata profanata dal fracasscdelle martellate. Tutto era provvisorio perché questo zar è stato sepolto, in fondo, a credito. I soldi promessi da Mosca non sono arrivati, il comitato ha dovuto arrangiarsi: legno pressato al posto del marmo di Carrara, vernice al posto delle dorature, tappezzeria a mimare gli affreschi. Sarebbe però sbagliare far cadere quanto è successo ieri a San Pietroburgo nel sordido folklore, giudicarlo come uh episodio un po' macabro di una guerriglia politica senza esclusione di colpi. Il rapporto con il passato è come vuotare un alambicco che poi torna a riempirsi di un altro liquido. Ha ragione Eduard Radzinskij, lo scrittore diventato famoso in tutta la Russia raccontando la tragedia di queste vite travolte dalla furia della storia: «Questo è un inizio, un battesimo. Oggi il Paese capirà quanto è successo. I politici pensavano di poter stare a casa, fare finta di niente e saranno qui. La Chiesa dubita dicendo che i Romanov non hanno fatto miracoli. Ma non è il miracolo più grande aver costretto Eltsin a prendere una decisione giusta? Lenin e lo zar sono due vicende indissolubilmente intrecciate. Seppelliremo anche Lenin e allora la nostra grande, tragica rivoluzione sarà veramente finita». Domenico Quirico Un prete ortodosso di fronte alla bara dello zar Nicola durante la cerimonia a Ekaterinburg