Petrassi La musica per salvarmi la vita

Petrassi La musica per salvarmi la vita l saggi di bordo, A colloquio con il compositore che, a 94 anni, non rinuncia alle emozioni Petrassi La musica per salvarmi la vita IROMA N un angolo del salotto della casa di Goffredo Petrassi - quella, da anni, e sempre generosa di ospitalità e curiosità - sta una quattrocentesca statua lignea di Giovanni Battista. Il braccio destro alzato, l'indice puntato. «Un indice alato, come stesse per spiccare un volo, verso l'ignoto». Il compositore, nato il 16 luglio del 1904 a Zagarolo, a Roma è sempre vissuto, dopo l'arrivo, leggendario ormai, a bordo di un carretto a cavallo che portava in città il vino della campagna. Di Roma Petrassi è rimasto l'ultimo genius loci: ancora partecipe, attento, elegante nella propria discrezione, utile. «Sono così vecchio che lei adesso approfitterà dei miei anni per chiedermi come la musica è cambiata nel Novecento. E' mutato tutto, eppure il mutamento non è arrivato alle radici. Le radici sono rimaste le stesse: la necessità per l'uomo di avere la musica, la necessità del suono e della sua organizzazione. Cambia la crosta dell'uomo, non la sua intima essenza». Che cosa ancora chiediamo alla musica? «Di esprimere un mondo metafisico. Di portarci verso lo spirito attraverso una dimensione fuori dal reale». Finzione, sogno? «No. Un irreale sostanzioso che sostanzia la nostra spiritualità. Mi sono espresso male, o è chiaro?». Nelle sue opere, è lampante. La musica è molto cambiata: il Novecento è stato il secolo che ha creato la riproduzione del suono, i dischi, l'ascolto passivo. «Le facilitazioni che consentono l'immediatezza del consumo portano un indubbio vantaggio materiale, un eccezionale sviluppo del mercato. Ma portano anche un grande svantaggio per il cervello dell'uomo, che è favorito nei suoi istinti meno attivi, che può non agire più. Resteremo a bocca aperta a vedere i pochi altri che fanno. Che cosa considereremo un valore sul quale valga la pena di impostare la propia vitacervello, muscoli e spirito? Basta, detesto parlare da vecchioin negativo, come chi ha consumato quanto era consumabile»Ci sono state anche rivoluzioni linguistiche inaudite. «Un alfabeto e una sintassi, isistema tonale e le sue regolesono stati sostituiti da altre logiche compositive, da altre tee niche di scrittura. Che sono servite da grimaldello per pas sare da una condizione musica le a un'altra. Lo studio dèlia tecnica seriale ha preparato quanto è venuto dopo. Le conseguenze più rilevanti si sono avute con la musica post-seria le, che profitta di certi meccanismi messi a punto dalla mu sica seriale. E' servita da trapasso per condurci verso qual cosa di non convenzionale, co me invece era diventata l musica tonale». Aveva esaurito le sue possibilità poetiche, espressive? «Per il gusto del tempo presente sì. Ma tutto può tornare sotto spoglie diverse». Che necessità ha oggi la società del compositore? «Il compositore oggi è imbarazzato: tante sirene, possibilità, direzioni. Sta a lui decidere, la società lo lascia libero: forse perché ne ha meno bisogno. Pensa di poterlo sostituire con un disco, con un gran concerto di musiche di repertorio». Nel 1978 lei ha ricevuto il Premio Feltrinelli per la Musica dell'Accademia dei Lincei. Iniziò il suo discorso citando Pasolini: «Ebbene, ti confiderò, prima di lasciarti,/ che io vorrei essere scrittore di musica,/ vivere con degli strumenti...». «Comporre poesia vivendo tutta la realtà: il vissuto, il sensibile. Nutrirsi della vita e di tutte le cose, questo Pasolini immaginava fosse il comporre. E lo è, perfettamente detto. E il primo destinatario della tua musica sei tu stesso, il tuo alter-ego riflesso nello specchio, la tua coscienza testimone dei fatti». Musica colta e musica po- golare: il nostro secolo ne a accentuato la separazione, nella composizione e nel consumo. «Meglio le può rispondere un sociologo della musica, o un esperto del settore vendite. Un ricordo, uno soltanto: a Napoli c'era ogni anno il Festival di Piedigrotta, che corrispondeva, grosso modo, all'attuale Sanremo. Ogni edizione, si stampava un fascicolo di nuove canzoni se ne vendevano a pile. Quelle canzoni portavano delle firme abbastanza autorevoli. Non erano cialtroni, c'era gusto, se lezione, molte parole erano belle. Ma non amo questa piega che sta prendendo il discorso: prima era meglio, ora è peggio. E' indubbio che la grande diffusione di un prodotto può portare alla semplificazione del messaggio. Per obbedire al concetto di comunicazione si arriva spesso a spogliarsi dell'in telletto, della necessità di una creazione, rivolgendosi a tradì zioni più spicciole, più spendibili». Nessuna nostalgia per un periodo, un luogo? Vivere a Vienna al tempo di Haydn, Mozart, Beethoven, a Ve- nezia con Vivaldi, a Lipsia con Bach... «No, no, no! Si fermi. Ho vissuto nel mio tempo, mai avute nostalgie di questo genere. Lei pensa che un musicista dovrebbe averne?». Penso alla forza della memoria. Se preferisce: alla deriva dei materiali. «Naturalmente esiste e ci condiziona. Frescobaldi l'ho particolarmente amato, ma mai mi è passato in mente di rimpiangere il suo tempo». Mentre, dalla Spagna di Franco alla Russia di Stalin, l'Europa e l'Italia subivano le dittature, lei ha scritto «Coro di morti», su versi leopardiani. Uno sguardo fermo, un mormorio senza speranza sulla disfatta. «Eppure in quella partitura era presente il pensiero della vita. Che cos'è, che cosa resta della vita in relazione alla morte che prevale? Le implicazioni politiche del momento mi erano estranee; non mi interessava affatto fare un pamphlet antifascista. E' stato un atto diretto e puro, senza compromissio- ni. Avevo ir. testa un'inquietudine per la guerra dichiarata, cercavo come meglio esprimerla in musica, senza ricorrere alla protest-music. Avevo cercato qualcosa che sapesse dire i pensieri che mi agitavano. L'ho trovato in Leopardi». L'aristocratico Petrassi. «Sì, lo dicono, forse perché ho scritto poco. Ma ho molto riflettuto, e anche molto amato. Amavo l'opera che scrivevo, e l'amore non si può dispensare continuamente». Alcuni suoi allievi ricordano volentieri una frase che lei ripeteva durante le lezioni: «Aria, lascia aria tra le parti». «Il gusto personale mi impediva di attuffare un'idea dentro un'orchestra che suonasse massiccia. Ho sempre amato una scrittura piuttosto leggera, dove appunto possa circolare tra gli strumenti, soprattutto fra le idee musicali, dell'aria». E" un'idea più mozartiana che beethoveniana. «Non è mica tra i miei autori preferiti, Beethoven... Trovo che è vero. Del resto, ognuno si fa la propria tradizione, non bisogna accettarne una come sacra, ma sceglierla. Tra gli autori della mia personale tradizione, intesa come riferimento interiore, non c'è Beethoven. Qualche entità ha stabilito che bisogna venerare Beethoven? Monteverdi mi è sempre stato più vicino». Frescobaldi e Monteverdi: lei appartiene alla generazione di compositori italiani che hanno riscoperto la musica di Cinque e Seicento, prima sopraffatta dalla tradizione dell'opera lirica. «Ho vissuto in pieno quella temperie culturale, iniziata verso il 1920. La ritengo una delle riscoperte più importanti del secolo, soprattutto per noi italiani. Il ritorno all'antico preparava la modernità». Guardarsi allo specchio e scoprire - può capitare che una musica non è figlia propria, non del tutto... «Sì, ho avuto molti dubbi: questa partitura di chi è, chi l'ha scritta, come se non mi riconoscessi. E' doloroso accettare il fatto che, nonostante una fantasia un po' troppo sbrigliata, potessi non avere dei punti di riconoscimento ' personali. Quando capita, bisogna prenderne atto. Ho sempre predicato che l'artista non deve vivere di rendita. Diceva Stravinskij: "I compositori sono dei cani da tartufo"». E trovano l'originalità? Nella musica, è quasi di moda negarla. «L'originalità è un modo di essere naturale, non si apprende. Nel suo lavoro l'artista non può essere sempre impennacchiato, deve stare anche in pantofole, naturalmente. Voglio confessare un peccatuccio: qualche volta ho fatto fare da cavia agli allievi. Certi problemi di tecnica ai quali stavo lavorando e che mi assillavano, li proponevo, senza che lui se ne accorgesse, a un mio allievo. Serviva a me capire come ne usciva lui. Spesso occhi più semplici vedono meglio, e chi può ridarci gli occhi semplici dell'inizio del nostro lavoro di artisti? Ma mi sembrava di essere un ladro». Quando si compromette, la semplicità? «Quando diventi colto. La cultura, la conoscenza, modifica rapporti, giudizi, sentimenti. In un certo senso può far perdere la purezza dello sguardo, e I bisogna allora trovare degli antidoti per conservare un certo grado di ingenuità, che è assolutamente necessaria. E' indispensabile all'artista poter sempre meravigliarsi e saper gestire la meraviglia». Lei aveva diciassette anni quando ascoltò per la prima volta, a Roma, «Le sacre du printemps». Rimase sconvolto dalla potenza di quella musica. «Sì, letteralmente. E ogni volta che lo ascolto, il Sacre rinnova sempre un'emozione interiore, anche se dopo tanti anni un po' affievolita. A vantaggio di un'altra partitura di Stravinskij, La Sinfonia di salmi, che non impallidisce. Emozione vera, consentita anche dal testo sacro e dalla sua interpretazione. La mia - anch'io ho una certa consuetudine con questi testi - era piuttosto un'interpretazione realistica, anche un po' barocca, ridondante. La Sinfonia di Salmi mi ha aperto le orecchie e lo spirito, consentendo un'interpretazione diversa, più libera. Si può scrivere unAlleluja in pianissimo, in sordina. Non c'è bisogno delle trombe per il Laudate Dominum, si può mormorare». Di carattere sacro è anche la sua ultima composizione, un «Kyrie» per coro e archi, una pagina che ha voluto dedicare alla memoria di Fedele d'Amico. «Appena cinque minuti, ma per me di grande soddisfazione. Il mio congedo, come compositore, è stato sommesso, intenso, concentrato, tutto confluisce, precipita su un'unica nota, un re. Non ce n'era alcun bisogno, solo l'urgenza della fantasia. E' l'unico mio pezzo che sia stato bissato: dura poco, non ho disturbato troppo». Altre rivelazioni, dopo il «Sacre» e la «Sinfonia di Salmi»? «Il Wozzeck di Alban Berg a Roma nel 1942. Un fatto storico, in pieno nazi-fascismo, fare Wozzeck come dei congiurati. Che coraggio». I «Pensieri» di Pascal sono sempre a portata di mano? «Le moi haìssable, l'io detestabile. Altro che, ora come sempre». II maestro accompagna alla porta, attende che l'ascensore arrivi al piano. Improvvisamente, prima del saluto, ripensa a quell'indice alato. «Lo intravedo appena ormai, gli occhi se ne vanno. Ma lo conosco, lo sento bene. Che cosa vorrà indicare? Cose spaventose che ci attendono, oppure la salvezza? Io l'ho cercata scrivendo musica». Sandro Cappelletto In un secolo i suoni sono cambiati Anche il modo di comporre non è più lo stesso. Ma le radici sono intatte. Ciò che resta da esprimere è l'uscita metafisica dal reale IsinMid Foto grande: Goffredo Petrassi A sinistra: Stravinskij e Alban Berg molto amati dal compositore Qui sopra Pier Paolo Pasolini