GARIBALDI E CIALDINI COME COPPI E BARTALI di Antonio GhirelliOreste Del BuonoGiorgio Boatti

GARIBALDI E CIALDINI COME COPPI E BARTALI LUOGHI COMUNI PHlSfftWil m i; MEMORIE iti »iìu imuA » *5 i rikTiT.» Testi citati: Jurij M. Lotman La cultura e l'esplosione. Prevedibilità e imprevedibilità Feltrinelli Milano 1993 Alessandro Luzio Studi e bozzetti di storia letteraria Le Monnier Firenze 1905 Antonio Ghirelli L'eccidio di Fantina Se//er/o Palermo 1986 Odio e disprezzo reciproco: due caratteri inquieti, fatti apposta per non andare d'accordo su nulla GARIBALDI E CIALDINI COME COPPI E BARTALI Siamo un Paese che ama dividersi su coppie eccellenti OPPI contro Bartali, Mina contro Milva, Rivera contro Mazzola, Pasolini contro Calvino, De Gasperi contro Togliatti e andando ancora a ritroso - infinite altre coppie di antagonisti più o meno eccellenti. Tutti obbligati a ripetersi in scontri al fulmicotone apparentemente un po' insensati ma che nel loro cozzare hanno forse quel pregio di veridicità contenuto, secondo il semiologo Jurij Lotman, in ogni «esplosione». E così questi scontri tra personaggi apparentemente così costruiti da sembrare inverosimili svelano - come una terra percorsa improvvisamente da lampi di tempesta - il volto reale di un Paese. Di un'entità che non si offre mai serenamente nel suo intero dispiegarsi attraverso lo spazio né nella sua misteriosa vischiosità che pervade i secoli. E per dare esemplificazione di uno di questi «luoghi comuni» che, appena popolati da due personaggi opposti, diventano terra di nessuno e teatro di scontro, s'andrà ai primissimi anni dell'unità nazionale. Al contrasto che nel 1862 oppone Garibaldi al generale Cialdini. Contrasto che, come sappiamo, finisce a fucilate sulle alture dell'Aspromonte. E si macchia del sangue innocente con cui militari dell'esercito fucilano, a Fantina, loro commilitoni sbrigativamente considerati disertori per aver seguito l'Eroe dei Due Mondi. Certo che personalità così diverse - tra Cialdini e Garibaldi - non si potrebbero trovare. Brutta bestia il Cialdini, nonostante il passato di cospiratore e le brillanti imprese militari in Spagna. Una volta che mette la divisa da generale sembra essere diventato la caricatura di se stesso. O del capoccione militare trombone e irresponsabile. Scrive di lui lo storico Alessandro Luzio: «Non poteva darsi carattere più scontroso e spinoso del Cialdini: individualità più ingombrante e altezzosa, più invasa da pronunciata megalomania, più refrattaria alla disciplina. Il suo "io" era al centro dell'universo». E ancora: «Tutti quelli che 10 conoscevano bene lo definivano preopotente, sospettoso, di temperamento instabile, più pronto a comandare che a obbedire, eppure, timoroso com'era di una grande responsabilità, sempre pronto a evitare 11 comando supremo. In realtà, non voleva comandare e non sapeva obbedire». Che razza d'uomo fosse Garibaldi lo sappiamo, o almeno crediamo di saperlo, tutti. Nel 1862 Garibaldi è più Ga- fine decolla quella che porta Garibaldi nuovamente in Meridione. Il 28 giugno 1862 il «Tortoli» attracca a Palermo e l'Eroe dei Due Mondi va incontro al capitolo più triste della sua vita. Quello che invece di dare Roma capitale al nuovo Regno finisce con lo scontro d'Aspromonte e il suo arresto da parte delle truppe regie.. Garibaldi all'avviarsi dell'impresa non ha un piano, un progetto preciso. Il governo e il Re lasciano fare. Poi, quando vedono le reazioni internazionali, incaricano qualcuno di sbarrargli la strada. Questo qualcuno è il generale Cialdini, alias Duca di Gaeta, e sembra un personaggio fabbricato ad hoc tanto è convincente la viscerale adesione con cui in¬ Garibaldi ferito all'Aspromonte con la moglie ed una figlia ribaldi che mai: inquieto, reduce dell'impresa dei Mille ma scalpitante verso nuove e confuse scommesse che non riesce a mettere a fuoco. Un po' perché, tra sé e sé, non ha le idee chiare. Ma, soprattutto, perché da quattro opposti cantoni lo spingono verso le più inverosimili avventure. Ministri del governo italiano che agiscono sotto mentite spoglie e agenti di potenze straniere, rappresentanti di nazioni vessate dall'Impero di Vienna ed emissari di Casa Savoia tutti impegnati a strattonarlo per indurlo ad attizzare le braci di qualche conflitto. Magari bruciandolo poi anche un poco, così da ridurne l'immensa popolarità. Di tutte le trame alla terpreta il ruolo di bieco avversario di Garibaldi. Cialdini contro Garibaldi, dunque, e, come spiega Antonio Ghirelli in un suo bel libro dedicato a quei momenti, «Il reciproco odio, o disprezzo, nasceva da un'antitesi ben più profonda tra i due uomini, irrimediabilmente diversi, emblematici di due modi diametralmente opposti di essere italiani. Il Duca di Gaeta, prode soldato, eccellente tecnico, colonnello in Spagna contro i carlisti, poi generale sardo in Crimea a soli 40 anni, comandante di divisione a Palestro, simbolo incarnato di devozione al Re, alle istituzioni e al regolamento, non poteva capire né amare un uomo come Gari¬ baldi, generoso campione dell'unità nazionale e devoto quanto lui al sovrano ma anticonformista, ribelle, libero da ogni angustia mentale». E così si va alla sanguinosa resa dei conti dell'Aspromonte. Una resa in cui gli uomini di Garibaldi, fino all'ultimo, non credono possibile che i soldati del Re, comandati da Cialdini, possano sparare loro contro. Invece il Duca di Gaeta ha un suo preciso piano: «Raggiungere Garibaldi, inseguirlo senza dargli tregua, attaccarlo e distruggerlo se avesse accettato il combattimento. Era un'impostazione irresponsabile e delirante - scrive ancora Ghirelli - considerando la grandezza, le benemerenze e la popolarità dell'uomo che si intendeva braccare come un pericoloso bandito; ma dietro la protervia arrogante del generale sabaudo, v'era sicuramente il consenso di Vittorio Emanuele». Finisce come sappiamo. Garibaldi che, sublime e scorato, davanti alle truppe dei connazionali che avanzano ordina ai suoi di non sparare e riesce persino a farsi obbedire dai più che, eroicamente, stanno col fucile' al piede sotto un grandinare di palle.' E poi c'è l'irresistibile Garibaldi che - in quella splendida gag all'italiana che è costituita dalla resa d'Aspromonte - perde la pazienza quando gli mandano, come portavoce degli avversari, un tenentino scamiciato e urlante. Lo fa legare dai suoi e chiede un altro emissario. Gli arriva un maggiore Giolitti legnoso é sdegnato: viene pure respinto: «Dopo venti minuti di attesa giunse alfine il colonnello Pallavinci, che era teso ed imbarazzato, pieno di rispetto per il suo illustre prigioniero, affianco al quale si inginocchiò, a capo scoperto, per pregarlo di ar rendersi a discrezione "non avendo patti da offrire ma soltanto ordini di combattimen to"». E' il finale che piace a Gari baldi che si arrende e prende la strada di casa. Nella penombra della storia le molte Italie rivelate dai lampi d'Aspromonte sembrano tornare ad essere una sola. Oreste del Buono Giorgio Boatti