La difesa all'attacco della superteste di Giovanni Bianconi

La difesa all'attacco della superteste «Ho concentrato i miei ricordi su quello che avvenne nell'aula 6: alla fine ho ricavato sicurezze soltanto su chi c'era in quel momento. Sul resto non so nulla» La difesa all'attacco della superteste Omicidio Marta, la Lipari conferma la chiave del delitto ROMA. L'obiettivo è evidente: bloccare quella macchina di ricordi e di immagini seduta sul banco dei testimoni, gettare sabbia nel motore, deviarne il percorso. Al secondo giorno di interrogatorio di Maria Chiara Lipari nel processo per l'omicidio di Marta Russo, l'avvocato di Giovanni Scattone ce la mette tutta per dimostrare che la teste-chiave non è poi così attendibile, come vogliono far credere l'accusa e la parte civile. Al punto che oltre la metà delle domande vengono impedite dalla corte d'assise. «Sistemi di esame tanto defatiganti non si usano nemmeno per gli imputati», dice il presidente della corte Franmcesco Amato, e quando le grida di avvocati e pubblici ministeri si intrecciano nella battaglia delle opposizioni, è ancora il giudice a insorgere: «Questa è una persecuzione». Dura una mattinata intera il controesame del giovane e agguerrito difensore di Scattone, Francesco Petrelli. Anche se sulla presenza del suo assisito la Lipari dice di non avere certezze, l'intero impianto accusatorio si fonda sulla sua testimonianza; perché è la ragazza che colloca la segretaria Gabriella Alletto nella sala 6 di Filosofia del diritto, e poi è l'Alletto che - dopo un mese trascorso a dire il contrario - sulla soglia della galera dice di aver visto l'assistente con la pistola in mano, insieme a Ferrara. Dunque bisogna scardinare la testimonianza della Lipari, e nei verbali istruttori l'avvocato Petrelli ha trovato qualche punto debole nelle sue ricostruzioni. Sulle presenze all'università in quel disgraziatissimo 9 maggio dell'anno scorso, per esempio, quando fu uccisa Marta. La Lipari sostiene che quasi un'ora prima del delitto fece un'altra telefonata dalla sala 6 dell'istituto, hi quell'occasione dice di aver notato, alle sue spalle, l'assistente Andrea Simari. «Ma Simari - attacca il legale - quel giorno era altrove, come risulta dalla sua testimonianza del 22 maggio '97. Rimase in una scuola media fino alle 11,30, e poi si recò in una casa di riposo per anziani con l'autobus». La testimone - immobile come sempre, a parte le mani con le quali accompagna i discorsi dice nel microfono: «Forse mi sono sbagliata sull'identità». E sull'impiegato Angelo Ariemma? La Lipari racconta di aver visto pure lui, anche se in termini dubitativi, ma lo stesso Ariemma sostiene che quel giorno si trovava alla biblioteca nazionale. Stavolta però il colpo è meno forte, perché proprio la Lipari aveva insinuato il dubbio: «Non so dire se fosse Ariemma». L'avvocato insiste sui tabulati telefonici, dai quali non risulterebbero tutte le chiamate che l'ex-assistente del professor Romano sostiene di aver fatto dall'università quel 9 maggio. E dunque - lascia capire Petrelli alla corte d'assise, anticipando l'arringa - come si può credere a una persona che ricorda anche cose sbagliate? La ragazza, chiaramente infastidita da chi mette in dubbio la sua credibilità, ribatte: «Io ho concentrato i miei ricordi su quanto accadde nella sala 6 al momento della telefonata delle 11,44. E' un processo mentale complicato, perché bisogna recuperare i ragionamenti fatti sui volti intravisti, e ci vuole tempo. Alla fine ho ricavato delle sicurezze, ma solo sulle presenze di quel momento nella sala 6; non mi sono concentrata su altri ricordi». Poi torna sul clima di ostilità che si respirava nel suo existituto: «Quando uno ha la sensazione di avere di fronte un muro, batte solo sugli elementi certi». E per la Lipari, le certezze sono Gabriella Alletto, Francesco Lipariota e Salvatore Ferraro più, con qualche dubbio residuo, Giovanni Scattone. Tanto basta all'accusa, tanto deve demolire la difesa. E' ancora l'avvocato Petrelli a contestare alcune telefonate intercettate all'ex-assistente. «In un colloquio con suo fratello - chiede tra mille interruzioni e opposizioni lei dice a un certo punto: "Devo usarne vincitrice, devo fare la fur¬ ba, devo tentare di farli cadere". A chi si riferiva, e perché doveva fare la furba?». Chiara Lipari risponde: «Sono espressioni dette così, al telefono, e comunque mi riferivo alle persone dell'istituto, al clima assurdo che c'era lì dentro». Le difese concludono il loro lavoro convinte di essere riusciti a incrinare le supposte certezze della testimone, ma alla fine della due-giorni di interrogatorio il signor Donato Russo, padre di Marta Russo, va a salutare e ringraziare la Lipari: un lungo abbraccio tra le lacrime conclude il passaggio forse più delicato e importante del processo. «Per me è stato il più doloroso - dice il signor Russo - perché i princìpi morali di questa ragazza, alla quale bisognerebbe fare un monumento, sono gli stessi in cui credeva mia figlia». Giovanni Bianconi La ragazza difesa dal presidente «La state perseguitando» L'abbraccio col padre della giovane uccisa Maria Chiara Lipari, testimone chiave nel processo per l'omicidio di Marta Russo, durante l'interrogatorio di ieri in aula