«Ho visto gli imputati nell'aula 6»

«Ho visto gli imputati nell'aula 6» La Lipari conferma in tribunale ciò che notò il giorno del delitto all'Università La Sapienza «Ho visto gli imputati nell'aula 6» Delitto Marta, superteste dà la svolta alprocesso ROMA. Quell'omicidio, spiega, le ha cambiato la vita. «A un certo momento mi sono detta: l'unica cosa che conta è che questa ragazza è stata uccisa, e che ci sono dei vigliacchi in circolazione; me ne frego della mia immagine personale e della mia carriera». Così, in una notte di un anno fa, nell'ufficio del procuratore aggiunto di Roma, l'assistente di Filosofia del diritto Maria Chiara Lipari è diventata la testimone-chiave del processo ai presunti assassini di Marta Russo. E adesso, dodici mesi più tardi, davanti ai due ex colleghi che stanno in galera per le sue parole - non solo le sue, ma principalmente le sue - ripete in aula il suo racconto con la freddezza di un computer. Anche se è un computer pieno di sentimenti e di tormenti: (do ho pagato costi altissimi in questa vicenda, voi non sapete quello che ho sofferto». E' la Lipari che dice di aver notato nella sala 6 dell'istituto, il 9 maggio 1997, Gabriella Alletto che prima negò e poi ammise di aver visto Giovanni Scattone con la pistola in mano; ed è sempre lei, Maria Chiara Lipari, a sostenere di aver visto Salvatore Ferraro che uscendo la salutò con un «Ciao Chiara», oltre a una quarta persona che, forse, era Scattone. Davanti alla corte d'assise le deposizioni dell'ex assistente («Dopo questa vicenda non ho più messo piede in istituto, ho perso il lavoro») assumono tutta la forza di questa ragazza dall'aspetto - solo l'aspetto mite e innocuo di una ventinovenne coi capelli biondi e il tailleur color crema, i La sua voce si fa secca e decisa quando rivendica la sua verità: «Sono una persona molto responsabile, e non indicherei mai una persona in un'indagine per omicidio senza esserne assolutamente certa». A chi le chiede come mai ha impiegato oltre due mesi di interrogatori, prima di fare il nome di Ferraro, risponde: «Io sono un'iper-garantista, non volevo fare nomi senza avere certezze, ho avuto bisogno di tempo per ricordare». E all'avvocato che tenta di metterla in difficoltà ricordandole vecchie deposizioni in parte discrepanti, ribatte: «Guardi che io sono garantista con gli altri, ma anche con me stessa, e quindi ricordo benissimo che cosa ho verbalizzato». Con la deposizione-fiume della ragazza (ieri è durata tutto il giorno, oggi si prosegue col contro-esame), il processo per il delitto del'università è arrivato alla svolta decisiva. Perché non ci sono alternative davanti alle due strade possibili: o la Lipari dice la verità, «dimostrando un alto valore etico e morale» come dice il padre di Marta Russo presente in aula, oppure mente, e allora è una visionaria che s'è inventato tutto per chissà quali motivi. Da ricercare forse nella sua psiche. «Oggi abbia- mo sentito un Super-Io, non una testimone», commenta un difensore. Da quest'alternativa non si esce più. Non ne usciranno i giudici della corte d'assise, e nemmeno gli osservatori (anche politici) che guardano a questo processo come a una cartina al tornasole del lavoro dei magistrati e degli investigatori italiani. Scattone e Ferraro, lo sguardo fisso sulla loro ex collega per tutta l'udienza, sostengono che Chiara racconta bugie, e i loro avvocati faranno di tutto per dimostrarlo cercando contraddizioni e incongruenze nella sua deposizione. La procura e la parte civile, invece, affermano che dice la verità, e le sue parole sono la prova - uni- ta agli altri indizi - della colpevolezza dei due assistenti alla sbarra. Nella ricostruzione di quel 9 maggio fatta in aula dalla Lipari, non ci sono novità salvo un particolare: «Sulla presenza di Scattone - sostiene la teste - non ho certezza assoluta, ma forse l'ho visto anche appena sono uscita dalla stanza. Ho visto uno, che mi pare fosse Scattone, fare un cenno vèrso di me ad un'altra persona che sembrava mi scrutasse». Per il resto la ragazza ripete tutto ciò che ha detto, e per spiegare come mai ha aspettato dal 21 maggio fino all'8 agosto prima di fare il nome dei due imputati dice: «Ho dovuto faticare per farmi tornare in mente le cose: su Alletto e Liparota ho avuto la certezza quasi subito, dopo il primo interrogatorio. Ferraro invece mi è venuto in mente dopo, come in un lampo ho rivisto la sua faccia pallida, i capelli castani. Ricordare è stato un processo lungo, ho dovuto rivivere quei momenti». L'eventuale punto debole della sua testimonianza sta proprio in quei due mesi e mezzo tra la prima deposizione e le accuse finali, e la Lipari lo sa bene. Perciò dice: «Io non ricordo delle visioni, ma faccio ragionamenti. Ognuno di noi vede tanti volti, ma poi ricorda solo quelli sui quali ha fatto dei ragio- namenti. Ricordare significa tornare a quei ragionamenti, per questo ho avuto bisogno di tempo». Non sono state, quindi, le pressioni dei magistrati e dei poliziotti a far venir fuori quei nomi. E sulle intercettazioni nelle quali la stessa Lipari parla del procuratore aggiunto Ormarmi come uno che voleva «sputtanare» lei e suo padre, o del timore che accusassero lei, o dei ricordi stimolati «fino all'ano del cervello», dice: «Non mi sono mai sentita intimidita. Tina volta dissi al dottor Ormarmi di abbassare la voce, ma è sempre rimasto nei limiti del lecito. Avvocato, se lei pensa che in un'indagine per omicidio un poliziotto le dica "Per favore, cerchi di ricordare" è un po' ingenuo...». Non si scalfiscono con i sospetti sulle pressioni le certezze di Maria Chiara Lipari, che sembra vivere il suo ruolo di testimone-chiave come una missione. A tratti pare che voglia quasi riscattare una vita vissuta fino a un anno fa tra gli agi e le sicurezze della borghesia romana, con una luminosa carriera universitaria davanti buttata via per contribuire a risolvere un omicidio. La sua voce si incrina quando dice: «Ho pensato a quella ragazza e a sua madre, le madri dei ragazzi borghesi pensano solo ai loro figli e al loro orticello». A queste parole il padre di Marta Russo non riesce a trattenere le lacrime. Ma la commozione dura poco. Questo è un processo penale, e l'avvocato Coppi, difensore del professor Romano - che per la Lipari voleva coprire la verità - attacca senza risparmiare colpi. Insinua rapporti non corretti tra la ragazza e gli inquirenti, prima della deposizione in aula, ma la Lipari respinge l'assalto: «Come può pensare che io sia una testimone costruita, con tutto quello che ho pagato?». Giovanni Bianconi «Sono iper-garantista «Non mi sono mai e non indicherei mai sentita intimidita una persona senza dai poliziotti esserne certa» e dai magistrati» «Ho pagato costi altissimi per questa vicenda: mi ha cambiato la vita. Ma me ne sono fregata dell'immagine personale e della carriera, ho capito che contava solo scoprire i vigliacchi che hanno ucciso quella ragazza» Accanto: i due imputati Salvatore Ferraro e Giovanni Scattone. Nell'altra foto: la deposizione di Maria Chiara Lipari, assistente di filosofia