Santa Fe, cercansi anime

Santa Fe, cercansi anime Eletta capitale di guru e santoni, è la meta degli americani in cerca di se stessi Santa Fe, cercansi anime Tra pellegrini e mercanti della New Age SANTA FE DAL NOSTRO INVIATO Il barista della «Ore House» scosse la testa e disse: «Solo a Santa Fe. Sono passate due ore, non so più quanti margarita e voi stete ancora a menarvela con l'anima». Per chi non ama il doppiaggio e preferisce i film in lingua originale, quello che, coloritamente, disse, fu: «You are bullshitting with your soul». Da intitolarci una canzone. «Ce la menavamo con l'anima», come non avviene «solo a Santa Fe», ma in tutta l'America. Quando guarderemo indietro a questi anni di fine millennio, ricorderemo torme di persone ossessionate dalla ricerca di un equilibrio interiore, di giorno a compravendere azioni e mattoni, di sera alle adunate oceaniche del rabbino che insegna i segreti della cabala; d'inverno sulle piste di Aspen, d'estate su quelle del guru che lenisce la loro sofferenza esistenziale; esseri razionali che si fanno «purificare» la casa da una texana pagata un tanto al metro quadro mentre, come un carpentiere spirituale, suggerisce di «aprire qua un passaggio emotivo»; divi di Hollywood che saltano sul jet per volare dal proprio consigliere e farsi decidere la carriera a seconda delle iridi. Li guarderemo con pietà e comprensione, con il dovuto rispetto, perché hanno colto il sintomo della propria inadeguatezza e perché anche noi «ce la siamo menata con l'anima». A Santa Fe, poi, più che altrove, perché è luogo designato, terra di stregoni indiani e profeti New Age, flauti e arcobaleni, fulmini e alture. Un posto che ti fa sanguinare se hai i capillari men che d'acciaio e pensare di essere venuto a raccogliere un diamante, sepolto tra tutta quella bigiotteria indiana e quell'atmosfera per turisti. La prima ad arrivare a Santa Fe e al bancone del bar era stata Janet, dal Colorado. Era partita il giorno in cui si seppe che era morto Castarieda, che lei considerava un secondo padre. La data del decesso, quella ufficiale almeno, coincideva con la rottura di una relazione di due anni con un pastore protestante. Aveva pensato che si trattasse di un segnale ed era partita. Cinque ore in macchina da Veil, verso un posto che le avevano garantito «magico», a invocare un segno. Era un genere diffuso di donna americana a metà del cammino: un matrimonio più che giovanile alle spalle, una figlia in college, l'ossessione per la dieta stretta e una larga concessione all'alcol, tanto shopping e un gran parlare d'anima, infilando pacchetti in borsa. Avrebbe voluto sapere cosa fare, adesso. Chris, invece, veniva dalla California. Era un ingegnere, lavorava temporaneamente a Los Alamos. Scienza e coscienza, diceva, debbono andare insieme. Cercava il luogo dove tutte le sue intuizioni, logiche e illogiche, potessero fondersi. Disse, recitando una ben nota litania di viaggio: «Mi sono seduto sulle rocce rosse a Sedona, ho nuotato con i delfini alle Hawaii, ho aspettato l'alba nel Deserto Dipinto...». Sembrava il replicante di «Biade Runner», nell'ultima scena, sul tetto, quando elenca le tappe della sua vana avventura nell'esistenza, «...ma non ho ancora visto la luce». Intesa come «illuminazione», quella che ti esplode dentro nel buio. Per questo voleva andare nei «Campi dei fulmini». Stanno nel deserto a Nord-Est di Quemado. Li ha inventati un artista italiano di nome Walter De Maria: 400 parafulmini piantati a formare un gigantesco letto da fachiri a cielo aperto e sei persone per notte che possono entrare nel campo e, se hanno la fortuna del temporale, vedere l'effetto che fa. Alcuni raccontano di essere stati illuminati in modo più che letterale. «Però - disse l'ingegnere - i meteorologi hanno previsto bel tempo e secco per tutta la settimana, inutile andare a trascorrere una notte guardando spilli opachi. Lunedì torno a San Francisco, ormai sarà per la prossima volta». Ma avrebbe voluto la luce. La terza persona, una donna oltre i 60 di nome Angel, era, all'apparenza, l'unica del New Mexico. Veniva da un posto chiamato Truth or Consequences, ribattezzato così nel 1950 (prima era Hot Springs), perché un programma radiofonico che riuniva parenti lontani, intitolato appunto «Truth or Consequences» (dì la verità o paghi pegno) aveva promesso di trasmettere dalla città che avesse accettato di assumerne il nome (sarebbe come, in Italia, abitare a Carramba che sorpresa). Veniva a Santa Fe una volta al mese, per farsi sistemare l'anima da Dona Maria, una «psychic» potentissima. Avreb- be voluto essere più serena di quanto si sentiva, più aperta e sincera, dire la verità senza pagare pegno. La quarta persona taceva. Piccolo, vestito di nero, faccia cotta, età difficile da definire, sembrava vecchio, ma di quelli che lo sono sempre stati. «Invece, cosa vuole uno che viene fin qui dall'Italia?», chiese l'ingegnere! La risposta era: Manny Kline. Il nome me l'aveva fatto un uomo che vive in Friuli, si dedica al tiro con la balestra e alle arti marziali con concentrazione zen, gira il mondo, conosce il New Mexico e conosce Manny Kline. Pochi possono dire altrettanto. Sceglie lui, chi incontrare. Raccontano di un boss della mala che voleva assolutamente vederlo e si presentò senza appuntamento e lo fece portare fuori dai suoi scagnozzi armati. Manny Kline lo guardò senza espressione, poi posò la mano sul parabrezza antiproiettili dell'auto blindata e osservò il vetro e la faccia del gangster andare in frantumi. Avevo telefonato invano al contatto di El Dorado, atteso per tre giorni una risposta nell'albergo dove aveva dormito John Kennedy: niente. Avrei voluto vedere Manny Kline. La donna del New Mexico si alzò dallo sgabello e disse che era troppo stanca per rimanere ancora. Traballando, se ne andò. Il barista annunciò: «Ultimo giro». L'ingegnere disse: «Non per me. Mi fermo qui». L'uomo silenzioso disse: «Avrebbe dovuto andare... nei campi dei fulmini». Nessuno replicò. Guardò la donna del Colorado e aggiunse: «Dia retta a suo padre». «E' morto», disse lei. Lui scosse la testa, come se la cosa non avesse rilievo. Si alzò, mi passò accanto e disse: «Buona notte, sarà un lungo viaggio». Era imminente il ritorno a New York, ma ebbi l'impressione che non si riferisse a quello. Nessuno disse più nulla, ognuno se ne andò per suo conto, nel buio. Mi svegliarono i fulmini. Alla faccia dei meteorologi, un temporale straordinario: fece saltare i ripetitori delle tv e ci volle mezza giornata per ripararli. La donna del Colorado raccontò poi che aveva sognato suo padre e che lui le aveva detto di fare un altro figlio, finché era in tempo, perché la sua ragazzina sarebbe cresciuta meglio, più responsabile. Alle quattro del pomeriggio, nella piazza di Santa Fe, mi squillò il cellulare e un legale di Torino, che non vedevo da tempo e sapevo dotato di qualche percezione extra-sensoriale, mi chiese cosa ci facessi lì, dal momento che, alle sette e mezzo del mattino mi ero presentato a casa sua, con l'aria sfinita, chiedendo un caffè. Assicurava di non averlo sognato: la domestica, arrivando, aveva domandato come mai ci fossero due tazzine sporche in cucina. Tornai alla «Ore House», ma il barista non sapeva nulla dell'uomo silenzioso, chiunque fosse e qualunque cosa facesse ai vetri antiproiettile. Fuori, circolavano orde di lettori di carte e destini; il giornale locale conteneva centinaia di annunci che promettevano esperienze esoteriche per pochi dollari. Solo a Santa Fe. Può darsi che l'uomo silenzioso avesse ascoltato previsioni del tempo più aggiornate, che la donna del Colorado abbia sognato suo padre perché suggestionata, che il legale italiano abbia preso due caffè per cancellare la sbornia. Ogni storia può essere letta in due modi. Ma si può solo scrivere la verità oppure, carramba, pagare pegno. Gabriele Romagnoli «Sono arrivata qui il giorno in cui si seppe che era morto Castaneda. Per me è un secondo padre» «Sono un ingegnere della California e voglio andare nei Campi dei Fulmini per ricevere la luce» «Mi chiamo Angel e grazie a Dona Maria spero di diventare più aperta e più sincera» j I Santa Fe, nel New Mexico, capitale j della New Age e nella foto in alto I tempesta in uno dei Campi di Fulmini progettati da un italiano