La fine dell'innocenza nella Terra Promessa

La fine dell'innocenza nella Terra Promessa La fine dell'innocenza nella Terra Promessa GERUSALEMME DAL NOSTRO INVIATO Chi ha visto Israele durante la guerra del Golfo, nel '91, ricorderà lo smarrimento dei volti, il sùbito scompiglio delle menti, la sorpresa che l'evento creò in quasi tutte le famiglie. Era scoppiata una guerra attorno al piccolo Stato, e quest'ultimo era costretto a restarne fuori. Cadevano bombe irachene dal cielo, e nessuno più partiva: nessun padre, fratello, si alzava in piedi per replicare all'offesa con l'offesa. Restavano a casa invece, per la prima volta intimiditi, e ghermivano trepide maschere antigas. Conobbero sensazioni inconsuete, di impotenza. In alcune famiglie la figura del padre si incrinò. Dicono in Israele che la leggenda dell'invulnerabilità nazionale si infranse, dietro quelle maschere. Ma si sbrecciò anche il mito di David, che con armi giuste aveva sempre trionfato sul gigante Golia. E il mito del piccolo popolo che ha bisogno di una porzione indispensabile di terra, per fronteggiare gli aggressori: gli Scud di Saddam venivano da lontano, e possedere terre si rivelava futile lusso. L'intera storia nazionale cessava di essere romanzo, epopea di un popolo che replica agli insulti, e non si fa più trasportare «come pecora ai macelli». Dicono che in quelle ore Rabin capì la sterilità di un pensiero avvitato incessantemente attorno alla guerra, e di un attaccamento a territori strappati ai palestinesi con fatica, conservati con violenza, difesi con mezzi sempre meno impeccabili. Inutile ormai militarmente, la terra rischiava di tramutarsi in oscuro oggetto di desideri: desideri ultraterreni, integralisti, incontrollabili razionalmente. La figlia di Rabin descrive il volto paterno, quando veniva il momento delle maschere: per la prima volta vide nei suoi occhi una nuova paura, ma anche una granitica volontà di cambiar politica. Alcune rare figure rifiutarono le schermature antigas: per fierezza, per pudore, qualche volta per rabbia contro anni di immobilità israeliana. Ricordo il filosofo Yeshayahu Leibowitz, che vidi a Gerusalemme sul finire della guerra. Avversario tenace di quello che chiamava l'idolo dei territori, o anche il «culto semifascista dello Stato», Leibowitz non aveva mai aperto la custodia contenente la maschera. Rifiutarla era per lui questione di gusto, dunque questione etica. E' rimasto leggendario il gesto di Isaac Stern. L'allarme lo colse a Gerusalemme mentre eseguiva Mozart, concerto per violino numero 3. In principio fu obbligato ad assentarsi: i suonatori erano corsi nei camerini. Poi tornò sul palcoscenico - s'udivano ancora le sirene - e di fronte a una platea di maschere nere suonò, lui solo a volto scoperto, un adagio di Bach. (I violinisti sembrano accompagnare le recenti vicende di Israele: sette anni dopo, nel maggio '98, Yehudi Menuhin accuserà il governo Netanyahu di adorare non i territori, ma la morte: «Questo quando baste- rebbe dirsi l'un l'altro: ascoltate, noi siamo tutti attaccati a questa terra, tutti la amiamo, e allora perché morire per essa? Meglio vivere per la terra, e spartirsela». Meglio rivedere la propria storia, correggere le ingiustizie, scorgere nell'avversario passioni analoghe alle nostre, piuttosto che restare aggrappati a miti suicidi oltre che mortiferi. Il verdetto di Menuhin, sul giornale portoghese Publico, è impietoso: «Con il loro atteggiamento sul processo di pace, gli israeliani hanno perduto gli amici e le simpatie guadagnati attraverso quello che avevano sofferto». La memoria della Shoah diventa inservibile quando si tramuta anch'essa in maschera, in pretesto per non indagare dentro le proprie responsabilità. Già ora è memoria infeconda. Questi sguardi di introspezione sono inediti, e hanno portato alla stretta di mano fra Rabin e Arafat. Sono la prima esperienza tragica dello Stato fondato cinquant'anni fa - la prima esperienza del socratico conosci te stesso - e non è forse casuale che ultraortodossi e integralisti denuncino la corruzione ellenizzante dell'ebraismo. Corruzione che affliggerebbe soprattutto la nuova generazione di storici e sociologi, che sin dalla fine degli Anni 80 hanno cominciato a riscrivere la biografia nazionale, preparando le prese di coscienza di Rabin, di Peres, durante la guerra del Golfo. In realtà erano Rabin e Peres ad esser chiamati in causa, dai lavori di storici come Benny Morris o Tom Segev, Baruch Kimmerling, Avi Schlaim e Zeev Sternhell: sotto accusa erano gli eredi del sionismo socialista, che aveva fondato lo Stato e aveva costruito tutta una mitologia edificante, riconfortante, intesa a imbellirne la nascita e legittimarlo. Nel suo eccellente libro sulla genesi della nuova storiografia, Uan Greilsammer evoca decenni di storia militante, partitica, mobilitata al servizio non della conoscenza ma di una causa: non una storia quindi, ma un «romanzo nazionale». «Sin dal¬ l'inizio, questa mobilitazione si incentrò su una reinterpretazione teleologica del passato, rivelandosi problematica per qualsiasi storico di mestiere». La storia canonica doveva essere «bella, eroica, gloriosa, senza errori, senza crudeltà: doveva essere una storia di buoni contro cattivi» (Ilan Greilsammer: La nouvelle Histoire d'Israel - Nuova Storia di Israele, Parigi '98). Doveva fondare un'esistenza ebraica normale, simile a altre esistenze nazionali, ma allo stesso tempo non intendeva rinunciare all'eccezionalità dell'ebraismo, alla specificità di una storia non profana bensì sacra, finalistica, iscritta nei sacri testi. Israele poteva accampare un diritto storico alla Palestina, perché questo aveva promesso Dio a Mose. Poteva sentirsi intrinsecamente innocente, perché la Bibbia aveva annunciato immani tribolazioni, al termine delle quali Sion sarebbe appartenuta a un resto di puri, di giusti. Greilsammer mi fa notare che «nell'insegnamento sionista laico la Bibbia diventa espressione di una cultura nazionale, e non più di comandamenti divini e di una religione vera, separata dalla politica. In un certo senso la Bibbia viene nazionalizzata, da Ben Gurion e dai sionisti». Non a caso son celebrate feste connesse all'Esodo, alla terra: «La Pasqua, Pessah, non è più parabola di un intervento ultrater- reno ma di una conquista militare». Le storie edificanti non hanno bisogno di essere sempre veritiere, di soffermarsi sulle pietre d'inciampo, sulle sofferenze che può causare il suo necessario, ottimista procedere. Tutti i messianesimi politici del secolo - nazionalisti o classisti - condividono questa visione finalistica appresa sui libri di Hegel, e il nazionalismo sionista agì allo stesso modo: imbellendo, occultando. «Nell'ottica della storia universale, sembra spesso che il bene e il male siano il risultato di una dialettica quantitativa, e che ci sia in essa - per riguardo ai popoli della Terra - una certa grandezza di delitto e di astuzia, dove l'etica si spaurisce come un passero nella danza degli aironi»: questi i pericoli del finalismo universale hegeliano, secondo Kierkegaard. Questa la trappola etica in cui cadono i costruttori o i contemplatori di grandi imprese collettive, quando «vedono gli uomini alla stregua di un indistinto banco di aringhe». Il pericolo è la disattenzione per i costi individuali dell'impresa, la cecità per il male arrecato a chi si trovava proprio lì, sulla strada imboccata dai costruttori. Il pericolo è l'invenzione dell'innocenza: uno dei peggiori malanni che possa capitare a individui o nazioni, e che secondo i nuovi storici affligge la storia ufficiale in Israele . La svolta è avvenuta nel 1985, quando i ricercatori han no avuto accesso agli archivi storici. E' sfogliando documenti non più segreti che i nuovi esegeti hanno scoperto come andarono le cose nella prima guerra arabo-israeliana, come nacque lo Stato nel '48. In primo luogo, non era vero quello che si disse per anni: che quasi tutti i palestinesi erano fuggiti dai villaggi su ingiunzione araba, spronati da appelli radio che incitavano all'esodo e che promettevano un ritorno massiccio, letale per Israele. Non vi furono appelli, ma invece fuga di abitanti terrorizzati da rappresaglie, da massacri commessi dagli ebrei in villaggi come Dayr Yassin (fra 120 e 240 morti, compresi anziani, donne e bambini), da epurazioni etniche a Lod e Ramle. «Contrariamente a quel che sostengono gli arabi non esisteva un piano sionista di evacuazione - mi dice Morris -, ma l'idea del trasferimento di popoli era diffusa». Non è vero neppure che gli arabi rifiutarono per decenni la pace. Un'intesa non era forse possibile nel '47: ma poteva esser tentata dopo la guerra di indipendenza - se ci fosse stata una disponibilità israeliana ad accogliere parte dei rifugiati - e nei primi '70, alla vigilia della guerra del Kippur e 8 anni prima del viaggio di Sadat a Gerusalemme. Anche questo intuì Rabin, nel '91: questa volta non si poteva mancare l'occasione, pena l'autodistruzione. Non si poteva continuare a ignorare un popolo sempre più assetato d'identità, di risentimenti: un popolo che si identificava con il destino ebraico, rinchiuso in ghetti come gli ebrei. Un popolo per il quale il '48 non era data lucente: non era una Rinascita, Tkuma, ma era al-Nakba, che in arabo significa Catastrofe. Non è vero, infine, che tutti gli ebrei furono accolti generosamente. Tom Segev evoca l'ostilità verso gli scampati del Genocidio. Lo stu- dioso Avishai Margalit e lo scrittore Yehoshua mi spiegano le tribolazioni degli ebrei orientali, specie marocchini: «La loro preferenza per Netanyahu e l'ostilità a Oslo è scambiata per rifiuto della pace - dice Margalit -. Ma spesso la pace non c'entra affatto. C'entra la discriminazione che gli orientali hanno subito. C'entra la paura che la pace profitterà economicamente e politicamente alla sola privilegiatura ashkenazi, europea o russa». Non mancano le imperfezioni nei nuovi storici, che Greilsammer sintetizza magistralmente nel libro. C'è un rancoroso desiderio di liquidare il sionismo, e ogni ideologia unitaria che tenga a freno la frammentazione comunitarista della nazione. C'è il sogno di purezza che fa ritorno: yehoshua denuncia l'ennesimo tentativo di idealizzare l'ebreo, e se la prende con gli europei che criticano molto, ma hanno dimenticato la violenza delle proprie fondazioni, delle proprie guerre. Ma resta il pregio inestimabile di un lavoro storico solitario, non conformista. Resta la volontà non già di dimenticare il passato per costruire presente e futuro, ma di poggiare la memoria collettiva sulla storia così com'è accaduta, anziché su leggende di armonia e irresponsabilità. La cosa veramente grave è che storici di questo genere siano assenti nei territori palestinesi. Qui ancora nessuna autocritica, sulla diserzione delle élite palestinesi nel '47-48 o sull'abbandono dei villaggi al loro destino. Nessuna revisione degli errori, del terrorismo, dell'integralismo, degli antisemitismi. E' l'immenso vantaggio israeliano, nella regione: la democrazia in Israele non serve certo a evitare il male, ma almeno consente di pensarlo, di correggerlo, di far circolare idee contraddittorie. I palestinesi non hanno tale opportunità: non possiedono tradizioni democratiche, e ancora devono edificare uno Stato legittimo. E' il motivo per cui alcuni scommettono su un Israele binazionale e laico, appartenente «a tutti i cittadini» e non solo agli ebrei: il deputato israeliano Azmi Bishara, arabo, lo ha riproposto ed è stato approvato dallo storico Kimmerling. Ma i più prudenti temono la rinuncia all'ebraismo di Israele, per ragioni demografiche oltre che esistenziali: perché le popolazioni arabe crescono, e l'ebraica si assottiglia. Si battono per il riconoscimento reciproco fra i due Stati, e per il momento invocano un muro, che separi due popoli troppo intrecciati, troppo violenti l'uno con l'altro, troppo attratti - ambedue dall'invenzione dell'innocenza. Potranno forse intendersi, un giorno, se assieme compiranno il grande passaggio dall'età dei miti all'età della storia. Se assieme smetteranno i romanzi teleologici e si sentiranno abbastanza intrisi di tragedia, e abbastanza sconfortati su se stessi; per tentare infine una nuova via. Barbara Spinelli (4-Fine) Le precedenti puntate sono state pubblicate il 28 giugno, il 2 e il 5 luglio Non è vero che nel '48 i palestinesi fuggirono solo su istigazione araba Furono cacciati da massacri e rappresaglie Ma la democrazia se non serve a evitare il male almeno consente di pensarlo di correggerlo di muovere idee Una generazione di studiosi scava negli archivi e scopre una storia in bianco e nero I TORMENTI A DI ISRAELE Uno Scud irachéno su Israele durante la guerra del Golfo, e la stretta di mano Rabin-Arafat