Il Paese dove tutto arriva tardi di Augusto Minzolini

Il Paese dove tutto arriva tardi Il Paese dove tutto arriva tardi Dalla giustizia alla verifica: caso o scelta? DAA.LA PRIMA PAGINA TJLLA di tutto questo è successo. In realtà, dal tanto decantato vertice dei segretari della maggioranza che si è svolto ieri a Palazzo Chigi è uscito quello che tutti si aspettavano, e che non può essere di certo descritto con parole roboanti o tirando in ballo nuovi cicli riformatori: in cambio di 160 mila posti di lavoro socialmente utile non attraverso l'Agensud - così la coscienza è salva - ma una misteriosa agenzia in stile legge 285 di cui i più ignoravano il nome - cioè Italia sviluppo -, la conferma dell'impegno sulle 35 ore, 36 mila miliardi in tre anni per il riassetto idrogeologico del Paese e un impegno del presidente del Consiglio per un'accelerazione dell'iter parlamentare della legge sulla rappresentanza sindacale, Bertinotti ha accettato di dire quella che somiglia alla battuta di uno spettacolo di cabaret: «Non c'è nessuna svolta, ma qualche movimento sì». Così l'estate per il governo trascorrerà tranquilla, poi verrà il problema della finanziaria. Su questo punto, ovviamente, c'è stato, a sentire gli aedi del presidente del Consiglio, uno scontro epico tra Romano e Fausto. «TI Paese - avrebbe detto il primo - non può aspettare settembre. La verifica e la fiducia riguardano anche la finanziaria. C'è stato un vulnus sulla Nato, la maggioranza deve uscire rilanciata da questo passaggio, se no è inutile continuare. Non è che a settembre ricominciamo da capo». «Io - avrebbe risposto il secondo - non vi sto dicendo che rompo a settembre. Non mi potete però chiedere un accordo di lungo o medio periodo, perché non sono in grado di darvelo. Ci sono stati degli sforzi verso di noi, ma la svolta di cui parlate non c'è». Inutile dire che la questione è rimasta irrisolta. Un altro duello omerico è andato in scena quando il vicepremier ha risposto duro alle riserve poste da Bertinotti sull'innalzamento a 16 anni della scuola dell 'obbligo: «Se un governo riformista non riesce a fare neppure questo - avrebbe tuonato Veltroni - allora è meglio che ce ne andiamo tutti a casa». E anche qui tutto è rimasto per aria. Al di là della rappresentazione che se ne dà, la realtà ha ben poco di epico. E il motivo è semplice: nessuno dei protagonisti in questione ha l'indole, la voglia o il potere di andare fino in fondo. Sono tutti, a modo loro, dei sacerdoti del ritardo. Prodi, e ancora di più il fido Veltroni, hanno cominciato a minacciare l'alternativa accordo serio o eiezioni, non due mesi o un mese fa quando il ricorso alle urne era ancora possibile, ma solo quando hanno avuto l'assicurazione - o più di un'assicurazione che lo scioglimento anticipato non era più tra le ipotesi in campo. Appunto, lo hanno fatto con un calcolato ritardo. E un'arma scarica - sarà solo un'impressione - è anche quella di Bertinotti, cioè la possibilità di una rottura autunnale visto che una simile prospettiva potrebbe aprire la strada ad una seconda scissione di Rifondazione. Insomma, per un chiarimento vero tutti sono in ritardo. E non è detto che siano loro quelli in errore. Anche chi ha provato in passato ad imporre in questa strana maggioranza che governa il paese una verifica vera - e nel tentativo si è quasi rotto la resta -, cioè Massimo D'Alema, ha imparato la lezione e si è convertito all'andazzo di sempre che è quello di accontentarsi comunque. Nel vertice di ieri il segretario diessino è arrivato a dire che l'idea di un nuovo confronto a settembre, di una maggioranza che deve pagare il prezzo di trattative estenuanti e permanenti per restare unita, teorizzata appena l'altro ieri da Bertinotti e Manconi, contiene «un nucleo di verità». Stesso discorso vale per la giustizia. Scalfaro, come si è detto, ha atteso quattro anni per giudicare «uno sbaglio» 1'«avviso» che costò il governo a Berlusconi, ma ai diessini per fare un altro esempio - ci sono volute settimane prima di dire un «sì», sia pure condizionato, alla proposta di Commissione d'inchiesta su Tangentopoli. E lo hanno fatto solo quando si sono trovati in uno stato di necessità, quando non avevano più una maggioranza sicura per pronunciare un «no». Succede sempre così, da noi. Prima di ammettere l'esistenza di una Tangentopoli, di un sistema di corruzione diffuso nel sistema politico, gli uomini della prima Repubblica aspettarono decermi. Lo ammisero solo quando furono travolti. Ora si ha l'impressione che l'errore si ripeta: per accettare l'idea che nelle inchieste su Tangentopoli sono stati commessi degli eccessi, o comunque per verificare se ciò è avvenuto davvero, i vincitori di oggi stanno impiegando anni. Con il rischio che se un giorno cambierà maggioranza e il nostro Paese, umorale come pochi, muterà opinione, le vittime questa volta saranno proprio i cosiddetti Eroi di Tangentopoli. Per questo è necessaria una pacificazione che metta fine allo scontro tra falchi e pazzi. Per questo bisogna trovare una sede dove vinti e vincitori scrivano una Storia imparziale, che tenga conto del punto di vista di tutti, ed individuare una soluzione per scrivere la parola fine su quella che alcuni hanno giudicato una Rivoluzione e altri una Contro-rivoluzione. Sperando non sia troppo tardi. Augusto Minzolini L'appello del Colle è arrivato a distanza di tre governi Il procuratore di Palermo Giancarlo Caselli con il responsabile Giustizia del pds Pietro Folena

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