E le «colombe» azzurre non convincono il Capo

E le «colombe» azzurre non convincono il Capo E le «colombe» azzurre non convincono il Capo DALLA PRIMA PAGINA Cjf E' chi, come Francesco Cossiga, vuole una ((ricostruzione storica del fenomeno di Tangentopoli per non affidare la storia ai tribunali». C'è chi come Bettino Craxi spiega da Hammamet che quella Commissione dovrebbe indagare anche «sui ripetuti attentati ad organi costituzionali che i magistrati hanno commesso in questi anni, reati che prevedono una pena che va dai cinque ai dieci anni». Ebbene, ognuno ha qualcosa da chiedere ad una Commissione del genere, in Italia e fuori, ma c'è un dato della giornata di ieri che colpisce più di ogni altra cosa: nessuno ha potuto dire un semplice «no» per liquidare una simile richiesta. Anche chi fino all'altro giorno era contrario ha dovuto prima ricorrere ad un «sì condizionato», per usare un'espressione del diessino Fabio Mussi. Eppoi rifugiarsi nel solito espediente del rinvio. La realtà è che i tempi sono cambiati, tant'è che pure il responsabile giustizia del Bottegone, Pietro Folena, deve dichiarare: «La politica non può delegare ai giudici la scrittura della Storia». Ora bisogna vedere se l'occasione che si presenta sarà colta o se, ancora una volta, sarà sprecata. Qui, al solito, bisogna studiare i complessi circuiti mentali del Cavaliere e le geometrie, a volte troppo ciniche, di D'Alema. Se i due si ritroveranno o, comunque, cercheranno ancora il filo di un dialogo l'occasione non sarà sprecata, altrimenti continuerà una battaglia, uno scontro frontale che non promette niente di buono ad entrambi. Con la mossa di ieri, con quella mezza apertura all'idea di una Commissione su Tangentopoli, D'Alema ha tastato il terreno. Per la cronaca, il segretario dei diessini l'aveva già maturata l'altro ieri, ancora prima che uscisse la notizia della condanna di Berlusconi, proprio mentre alla Camera Flick esprimeva il giudizio contrario del governo sulla Commissione. Ma perchè dopo i ripetuti (aio» è arrivato quel «mezzo sì»? Il cambio di copione risponde ad uno stato di necessità ma anche ad esigenze di strategia. D'Alema l'ha spiegato così: «Intanto - è stato in sintesi il suo ragionamento - l'idea di non lasciare ai tribunali la scrittura della storia del nostro Paese è una cosa in sè giusta. Poi non bisogna nascondersi il fatto che il voto alla Camera sulla Commissione d'inchiesta si svolge sul filo e, comunque, crea sofferenza in settori della maggioranza come i dimani, i socialisti e gli stessi popolari. Una commissione con dei limiti, quindi, ricompatterebbe la maggioranza. In secondo luogo c'è il problema fon- damentale di riaprire un dialogo con il Polo». Un ragionamento a cui ha fatto seguire un corollario che recita più o meno così: messa su con certi criteri la commissione può anche rappresentare un'opportunità, può essere un primo passo «limpido» (è l'aggettivo usato) per arrivare al termine del percorso alla soluzione politica del problema Tangentopoli. Ovviamente, il segretario pidiessino ha accompagnato la «mossa» difendendo publicamente la senten¬ za del Tribunale di Milano contro Berlusconi. Ma questo è un atteggiamento tipico dì D'Alema, un tatticismo per evitare nuove accuse di inciucio con Berlusconi. Un atteggiamento di cui, però, spesso l'uomo abusa. «Perchè da una parte D'Alema apre alla Commissione, e dall'altra attacca? Perchè - osserva De Mita - ha sempre l'illusione di potersi portare a casa tutto: in questo caso il dialogo con Berlusconi e la difesa dei magistrati». All'apertura di D'Alema sulla Commissione, ovviamente, il Cavaliere ha risposto a suo modo: prima è stato tentato di dire «sì», poi ha detto ((no», quindi ha schierato i suoi contro il rinvio senza fare, però, drammi dopo l'esito del voto. E il suo atteggiamento è andato di pari passo con la decisione di prendere la parola nell'aula di Montecitorio per sparare contro la sentenza del tribunale di Milano: al mattino il suo intervento era dato per sicuro; alle 13 è stato lo stesso Berlusconi ad annunciare che, «cambiata la situazione», non avrebbe parlato; in serata l'idea del discorso è tornata in auge per poi morire di fronte alla decisione dell'aula di rinviare la proposta in Commissione. Le titubanze del Cavaliere dipendono - anche questa non è una novità - da una condizione psicologica e dalla tentazione di seguire ancora una volta la strategia del «martirio». Intanto Berlusconi non si fida. Ieri quando si è riunito con i suoi per decidere se accettare o meno la Commisione d'inchiesta con i vincoli posti dai diessini, Berlusconi ancora una volta non ha ascoltato i consigli delle colombe: non è stato appresso alle tesi di Gianni Letta che avrebbe risposto subito sì a D'Alema, e neppure ai richiami alla prudenza di Casini. «Quelli - è stato il suo giudizio - vogliono una commissione monca, evirata. Noi dobbiamo spingere perchè abbiamo l'opinione pubblica dietro di noi. C'è un sondaggio che ci dà da soli, senza l'Udr, al 49%». Neppure Colletti è riuscito a fare cambiare idea al Cavaliere, anche perchè i soliti strateghi del gruppo della Camera, quelli che si compiacciono di essere più realisti del re, avevano assicurato al capo che sulla sua posizione il Polo avrebbe avuto la maggioranza del Parlamento. E Fini? E' stato al gioco tenendo per sè i dubbi: «Se abbiamo la maggioranza? - diceva prima che l'aula di Montecitorio rinviasse tutto - Non credo proprio. Perchè facciamo così? Non so. Da quando è caduta la bicamerale si va verso uno scontro di cui non si conoscono i contorni». Così per non accettare l'offerta di D'Alema, il Cavaliere è andato sotto in Aula: invece di pubblicizzare il fatto che i diessini avevano cambiato idea sull'ipotesi della commissione, ha preferito andare incontro a un voto sfavorevole. La scelta lascia ancora più perpessi se si pensa che per avere un organismo del genere il Cavaliere dovrà in ogni caso venire a patti con D'Alema, visto che al Senato gli equilibri sono ancora più sfavorevoli al Polo. Allora, perchè ha scelto così? Per «imperizia» come dice Franco Marini, o per altro? Qualcuno comincia a pensare che in fondo al leader del Polo la Commissione interessi poco, che in realtà la sua sia la «strategia del martirio», appunto, che voglia dimostrare all'opinione pubblica di essere un perseguitato. «Oggi - racconta De Mita - ero presente quando Fratturi aveva accettato l'idea di rinviare tutto in commissione. Poi Berlusconi ha fatto delle resistenze. Probabilmente aveva già preparato il discorso della vittima e una commissione votata e voluta da tutti è in contraddizione con la tesi della vittima. E pensare che poteva tranquillamente incassare oggi quello strumento per poi usarlo». Forse ha lagione De Mita, il Cavaliere continua a vivere nell'ossesione dei sondaggi anche se non sa ancora quando si voterà. Augusto Minzoiini «La sinistra vuole una commissione monca, evirata Ma dobbiamo spingere Abbiamo con noi l'opinione pubblica»

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