PERFIDA ALBIONE EPPURE STUPENDA di Oreste Del BuonoGiorgio Boatti

PERFIDA ALBIONE EPPURE STUPENDA PERFIDA ALBIONE EPPURE STUPENDA Uonda ariti-inglese non sfiora il castello di Borsa ^ nostro Passat0 Pm 0 meno recente corre di tanto in tanto una rancorosa onda anti-inglese. Tanto che il sentimento di ostilità contro la «perfida Albione» non può che essere registrato tra i luoghi comuni che ad alcuni crocicchi della storia s'impastano velenosamente con le nostre vicende. Anche se l'espressione «perfida Albione» giunge dalla Francia napoleonica, da noi conosce il suo massimo successo durante il ventennio fascista, come risposta alle sanzioni decretate dalla Società delle Nazioni contro l'impresa d'Etiopia. Eppure, già un secolo prima, non mancano i detrattori dell'Inghilterra che improvvisano brutti versi («cor di volpe, di falco unghie, d'insano Leone il fiel») dove, per descrivere l'amalgama di cui sarebbero fatti i britanni, si fa eco all'orrido cucinare delle streghe del Maebeth. Attualmente dentro i nostri confini nazionali questi umori paiono essersi abbastanza attenuati mentre è strabiliante notare quanti siti di «albionica» (ovvero dedicati ad illustrare tutte le nefandezze che sarebbero originate e pilotate con sperimentata abilità dall'Inghilterra) stiano proliferando su Internet. In questi siti, articolatissimi saggi e articoli - costruiti con le più raffinate tecniche della «disinformatja» così da assumere una verosimiglianza talvolta francamente irritante - sostengono tanto per dirne una che buona parte del narcotraffico sia stato controllato, perlomeno dai tempi della Regina Vittoria, dalla Corte di San Giacomo. Accusa, questa, tra le più lievi tra quelle che vengono avanzate contro le centrali segrete di Londra ritenute responsabili di ogni possibile complotto e piano di destabilizzazione del mondo (compresa l'uccisione di Lady D, ovviamente). Tra questi copioni attribuiti agli stati maggiori della Regina Elisabetta vi sarebbe, secondo gli «albionici», anche un piano di annichilimento delle capacità intellettive della gioventù occidentale. Raggiunto come? Semplice: orchestrando sin dagli Anni Sessanta l'imposizione - apparentemente del tutto spontanea ma in realtà pianificata in ogni particolare - della musica rock e pop. Per correre via da questi siti mefitici dove menzogna e paranoia si sposano (ma occhio, come diceva qualcuno «la paranoia è una forma di consapevolezza») e trovare opportuni ma non ingenui antidoti contro il luogo comune della «Perfida Albione» che si è annidato, di quando in quando, anche da noi non c'è miglior compagnia di alcuni scritti dimenticati di Mario Borsa. Testi dedicati proprio al lungo soggiorno di questo grande giornalista in Inghilterra. Ne «Il castello dei giornalisti e altre storie vissute» Mario Borsa, nato a Somaglia nel 1870, figura tra le più cristalline del giornalismo italiano dove spende l'intera sua vita. I suoi inizi sono alla «Perseveranza»: da questa testata, esattamente cent'anni fa, passa al «Secolo» quotidiano milanese che allora si fa interprete delle esigenze della borghesia illuminata settentrionale. Ed è come corrispondente londinese di questo quotidiano che Borsa si stabilisce a Londra in una casa «subito battezzata il ca- stello situata in Grove Park, ultima propaggine del quartiere sudorientale di Lee. Uscendo di casa, se invece di svoltare a sinistra voltavamo a destra, uscivamo anche di Londra, perché eravamo proprio sul margine estremo della metropoli... poi cominciavano le praterie, le ortaglie, i boschetti del Kent». Nella casa, inizialmente affittata da Olindo Malagodi - altra figura di spicco del giornalismo e della cultura italiana filo-britannica - s'aggiungono presto oltre a Mario Borsa, Gastone Chiesi «cresciuto alla scuola giornalistica di Dario Papa ed era stato disperso dalla raffica del 1898» Pietro Croci e Luigi Barzini. Quello che ne esce è uno stravagante e divertente ménage governato con pugno di ferro da una housekeeper inglese che sembra uscita da un racconto di Dickens e che si vede transitare sotto gli occhi la fauna degli italiani di spicco che sono di «passaggio nel castello: Guglielmo Ferrerò, Amedeo Morandotti, Alberto Bergamini, Emanuele Sella, Augusto Ferrerò, Angelo Crespi, Dino Rondani, Ettore Patrizi e non so quanti altri» scrive nel suo libretto Mario Borsa. In realtà il castello è una casa di campagna piuttosto sul rustico e i giovani italiani che ci vivono riescono a lavorarci solo perché sopportano benissimo il freddo e non hanno problemi a inforcare la bici per raggiungere più volte l'ufficio telegrafico di Grove Park, sulla cima di un'altura, dal quale spediscono e ricevono i loro dispacci. L'arrivo del telefono - la comunità giornalistica italiana a Londra è tra le prime a farne uso non semplifica le cose ma, perlomeno, dà origine a spassosi e incredibili aneddoti. Certo che la conoscenza dell'Inghilterra da parte di Borsa e Malagodi è frutto di un vastissimo giro di relazioni, di studio ma - anche - di gran fatica di polpacci. Ogni fine settimana i due prendono le bici e si percorrono tratti incantevoli del Paese. La descrizione che Borsa fa di locande, personaggi, abitudini e le notazioni che fa emergere sulla vita quotidiana inglese sono un godibilissimo mixage di intelligenza, affetto e humor per un'Inghilterra che a tratti sembra ancora quella di Shakespeare. E tuttavia, negli incontri descritti Borsa fa emergere tipi umani che sembrano uscire dalle assemblee dei soldati di Cromwell, quando nel quartiere londinese di Putney si decidono i destini della «rivoluzione» e della democrazia inglese. Dopo la vita nel «castello» londinese Borsa torna in Italia. Lascia il Secolo nel '23 ed è consulente di Albertini al Corriere. Ma anche qui s'impone la totale fascistizzazione del giornale e Borsa - integerrimo galantuomo e coerente antifascista - si fa da parte diventando il corrispondente del Times da Milano. Viene arrestato più volte per antifascismo e nel 1940 dal regime di Mussolini viene anche internato in un campo di concentramento. La sua ora più lieta sembra scoccare con la Liberazione quando gli viene affidata la direzione del Corriere della Sera. E' un direttore che si batte con rigore per la nuova democrazia e con caparbietà per la scelta repubblicana nel referendum del giugno 1946. Molti degli avversari - di prima e delle battaglie del momento - non glielo perdonano. Appena s'alza il vento della normalizzazione chiedono la sua testa. Il 5 agosto 1946 l'ottengono: Mario Borsa lascia la direzione del Corriere. Di lui, morto nel 1952 e ormai poco ricordato, ci rimangono dei libri, godibilissime memorie e l'esempio coerente di un giornalista innamorato della democrazia e dell'Inghilterra. A modo suo, dunque, un uomo fortunato. Oreste Del Buono Giorgio Boatti Mario Borsa: i suoi scritti inglesi sono raccolti nel «Castello dei giornalisti»