Olocausto, l'eresia di fine millennio

Olocausto, l'eresia di fine millennio Olocausto, l'eresia di fine millennio «Un crimine contro l'umanità non solo contro gli ebrei» GERUSALEMME DAL NOSTRO INVIATO Una delle cose che più fatica a divenire normale, per Israele, è la storia. La storia degli ebrei è una cronaca speciale, separata, che ha connessioni evanescenti con le profane vicissitudini di altri popoli. E' un succedersi non di eventi ma di avventi, illuminati dall'accadimento supremo del secolo: dalla cupa luce di Auschwitz, dall'Annientamento che in lingua ebraica si chiama: Shoah. Milleottocento anni di esilio sfociano in quei forni, in quel crimine che mantiene il nome ebraico perché non è ritenuto comparabile, dunque neanche traducibile. Mi dice a Gerusalemme lo storico Tom Segev che per lungo tempo gli israeliani rifiutarono la parola crimine contro l'umanità, che implica la volontà di uccidere la persona umana, nell'ebreo. Il crimine non aveva colpito l'umanità ma specificamente l'ebreo - si replicava. Non era il frutto di peculiari circostanze, che urgeva studiare nella loro genesi, nel loro manifestarsi, ma era il compimento logico di una storia cominciata con la distruzione romana del secondo tempio e culminata a Auschwitz: la storia lineare dell'antisemitismo, prima antico-romano poi cristiano. Era esperienza del tremendum, e in quanto tale fondatrice di un Nuovo Mondo, di un Nuovo segreto Testamento. Nel suo libro più toccante, dedicato ai rapporti fra Israele e il genocidio, Segev racconta come nacque una disputa faticosa, nel '61 durante il processo di Eichmann, attorno alla definizione delle colpe naziste. Contrariamente alla corte, Hannah Arendt che era giunta dall'America per un'inchiesta sul New Yorker considerò l'assassinio degli ebrei un crimine contro l'umanità. «Ma non ebbe successo, perché lo Stato di Israele non desiderava in alcun modo parlare in nome dell'intera umanità, e rifiutava di considerare il Genocidio un crimine universale: nell'aggettivo, esso vedeva la volontà di ridurre il significato della Soluzione Finale, e la negazione del diritto ebraico a esigere sostegno da altre nazioni». (Tom Segev, Le septième Million, Parigi '93, p. 420). In una prospettiva universale, il Genocidio è crimine non solo contro gli ebrei ma contro la civiltà: quindi diventa ripetibile, sotto forme diverse. Diviene data della storia di tutto un mondo. Proprio questo spaventa, e chiunque abbia in mente la macchina di Auschwitz può capirlo: in ogni generalizzazione di patimenti indicibili c'è il meccanismo che tiene sveglie le coscienze, e che può anche stemperare la memoria. Ma c'è anche la paura che l'universalizzazione del crimine uscendo dai recinti di una storia sacra, entrando nella più vasta storia della civiltà - cancelli gli aspetti rifondatori che il sionismo gli attribuì. Il Genocidio resta una data cardinale, che dà senso alla nascita di Israele nel '48 e allo sviluppo di una grande democrazia. E' Male assoluto ma anche rigeneratore, che taglia Ma c'è ualla strupolitica come una lama la storia dell'ebraismo: c'è un tempo precedente la Shoah, e uno successivo. Il tempo che viene dopo riscatta non solo lo sterminio, ma l'interminabile esperienza dell'Esilio, del Galut.' Lo scrittore Amos Elon sostiene che l'Olocausto «è uno dei tre pilastri dell'identità collettiva nello Stato ebraico, gli altri due essendo il nazionalismo e la religione». Secondo Segev c'è addirittura fusione deviante, tra fede religiosa e sterminio. La Shoah, scrive nel Settimo Milione, è la «religione di Israele»: religione di un Mondo Nuovo, di un Ebreo Nuovo scaturito dalla catastrofe, e religione della guen-a infinita contro avversari incessantemente ostili. Alcuni temono che anche questa visione del Genocidio appannaggio d'un muco popolo, eletto al tempo stesso da Dio e dal crimine - possa rafforzare paradossalmente l'oblio. «Auschwitz si tramuta in esperienza etnica - mi dice lo scrittore Rosenblum - che non insegna lezioni sull'umanità presente e futura». Oppure si tramuta in cronaca messianica - mysterium tre- mendum è una categoria cristiana e anche in tal caso Auschwitz esce dalla storia, entra nella teologia. La stessa parola Olocausto evoca un biblico sacrificio: Mauriac fu tra i primi a usarla, nel '58, in un libro su Gesù. Contro queste teologizzazioni cristianizzanti si erge lo storico americano Michael Bernstein (Rinuncia alle conclusioni: Contro la storia apocalittica - Foregone Conclusions: Against Apocalyptic History, Berkeley '94). Ma non è sempre stato così, e precisamente questo raccontano i nuovi storici israeliani degli Anni 80 e 90. Segev ha turbato gli animi con particolare veemenza - evocando l'indifferenza di tanti ebrei di Palestina durante lo sterminio, spiegando i motivi per cui Israele fece silenzio per quasi quindici anni su Auschwitz, fino al processo Eichmann -, ma altri attorno a lui tentano di riallacciare la storia ebraica a quella universale, di mutare la lezione che si può apprendere da Auschwitz. Secondo lo storico Ilan Greilsammer, quello che sta avvenendo è una «profonda rivoluzione concettuale, compiuta dagli storici post-sionisti sulla scia delle guerre, e dell'Intifada palestinese»: l'immagine di Israele si normalizza, e per forza si normalizza anche la storia. 0 meglio: si secolarizza, smette di essere teologia politica. «Perfino alcuni vocaboli altamente ideologici tendono a mutare», nota Greilsammer: vocaboli prediletti dalle comunità in diaspora ma guardati con crescente sospetto in Israele, dove vengono sostituiti da termini più laici, meno eufemistici. Si dice sempre più spesso hagira, «immigrazione», invece di aliya: Ascesa in Terra Santa. Lasciare Israele non è più una «discesa», una yerida, ma è semplice «partenza»: yetsia. Gli ingressi ostacolati nel Paese si chiamano «immigrazione illegale», e non più haapala: «ascesa con sforzo». Cadendo mfine nella Storia, gli israeliani perdono l'innocenza delle vittime. Apprendono la colpa, la responsabilità, la critica del proprio passato nazionale. Apprendono anche a chiedere perdono: cosa inconsueta per gli israeliani, come ha scritto Avraham Yehoshua in uno splendido articolo su La Stampa (24/6/98). Il piccolo gruppo di storici ha molti avversari, tra accademici e politici, perché la Shoah è parte ormai di quella che Amos Elon chiama politica della memoria, «strumentalizzazione dello sterminio» a firn nazionalisti o integralisti: «E' la paranoia del tutti contro di noi, che ha impedito più volte di fare la pace con gli arabi quando questo era possibile». Elon narra di una conversazione del '72 fra il laborista inglese Richard Crossman e un ambasciatore israeliano in pensione, av¬ venuta quando già era possibile un'intesa con l'Egitto, sei anni prima del viaggio di Sadat a Gerusalemme. Grande amico di Israele, Crossman si doleva dell'inflessibilità di Golda Meir - allora primo ministro - fin quando l'ambasciatore, pur annuendo, lo interruppe: «Vi supplico di capire: noi siamo un popolo traumatizzato!». Al che Crossman: «So bene che siete un popolo traumatizzato. Ma siete un popolo traumatizzato con la bomba atomica! Popoli simili andrebbero messi dietro le sbarre!». Oggi non sembrano diverse, le inflessibilità di Netanyahu. Ma è mutato il clima, in Israele. Si moltiplicano le rigidità religiose e conservatrici, ma esiste una nuova élite che è stanca di tante occasioni di pace perdute, stanca della strumentalizzazione politica dei traumi passati, stanca del carattere unico che viene attribuito al Genocidio. Quello che sta succedendo è una lenta ribellione intellettuale contro ambedue le interpretazioni della Shoah che hanno prevalso in Israele e nell'ebraismo, dopo la guerra. In un primo tempo 0 genocidio fu censurato o sfigurato, dai fondatori sionisti dello Stato. Segev narra il disprezzo, la vergogna, che gli ebrei di Palestina provarono verso gli scampati dei campi. I fuggitivi erano andati a Auschwitz «come pecore al macello», avevano chinato la fronte. Soprattutto, non erano venuti prima in Palestma. Inoltre quando giunsero in Israele avevano volti pallidi, abitudini cittadine e non erano forti, energici, legati alla terra, alla natura, come gli ebrei indigeni. «Sbigottiti, gli scampati scoprirono un mondo ebraico che aveva interiorizzato tutte le opinioni antisemite, e che accusava la Diaspora di esser responsabile della Liquidazione», racconta Segev. La stessa parola Shoah veniva evitata, non era mai pronunciata sola. Si parlava di Shoah u Gvura, di Annientamento e Eroismo: «Si nascondevano le resistenze silenziose, non eroiche, consistenti nella fedeltà alla religione, o alla dignità umana». Solo al processo Eichmann, i sopravvissuti cominccraimo a riprendere la parola. Solo negli Anni 80 si costruirà al Yad Vashem - il museo della Shoah a Gerusalemme - un monumento che ricorda i bambini periti nei campi, accanto ai resistenti periti del ghetto di Varsavia. La seconda interpretazione nasce contro queste censure, nella seconda metà degli Anni 60, quando si estendono le notizie sui crimini comunisti contro l'umanità. E' allora che inizia la «politica della memoria»: che la Shoah si trasfigura in evento messianico, unico, fonte di di Hitler ia della biblico fierezza rigeneratrice. Non è tanto unico l'evento, quanto il popolo che l'ha subito. E' quest'ultimo che non va paragonato. Elie Wiesel, in una celebre riunione del '67 tra filosofi ebrei - riuniti a New York per ripensare la memoria dei Lager - parla per primo dello sterminio come di un «capitolo glorioso nella nostra storia ebraica». Ma oggi queste interpretazioni si sgretolano, sostengono i nuovi storici. Si sgretolano perché l'Ebreo Nuovo sognato dai sionisti di Ben Gurion non si è materializzato «hanno trionfato i cittadini di Tel Aviv e non i pionieri agricoltori dei kibbute», dice Segev - e perché il sionismo nonostante tutto ha vinto, creando una nazione responsabile dei propri successi, delle proprie colpe. Oggi gli ebrei di Israele si dividono sulla lezione di Auschwitz, continua Segev: «E se molti si aggrappano alla memoria e la singolarizzano, la fossilizzano, altri cercano una lezione più umanistica. Auschwitz può aiutare a caphe il presente, a disobbedire a ordini illegali, a difendere i diritti umani in ogni luogo del mondo essi siano violati. Può aiutare a vedere genocidi comparabili, come quello degli armeni o dei tutsi in Ruanda. Ogni genocidio è unico, a suo modo. Li unisce l'idea del crimine contro l'umanità». Yehuda Elkana, filosofo israeliano e sopravvissuto di Auschwitz, scrisse nell'88 un articolo che fece scandalo. Si intitolava «In favore dell'oblio» e criticava le rituali visite israeliane nei campi di morte in Polonia, nel museo della Shoah di Gerusalemme. Ma Elkana non è per l'oblio. E' per un uso diverso della memoria: bisogna certo studiare come fu preparato il genocidio - scrive - e quale fu l'ideologia dei suoi pianificatori. «Ma tutto questo occorre farlo non solo per quanto concerne gli ebrei». Gli educatori devono sottolineare sempre che il crimine può riprodursi, in altri luoghi e contro altri gruppi umani: «Nel nostro rapporto con i palestinesi c'è una paura profonda, una Angst, che nasce da una particolare interpretazione della lezione dell'Olocausto. In questa atavica paura io vedo la tragica e paradossale vittoria di Hitler. Parlando metaforicamente, si può dire che due nazioni ebraiche sono emerse dalle ceneri di Auschwitz. La prima, minoritaria, asserisce: "Questo non deve più accadere". La seconda, maggioritaria, si sente dannata e ripete:"Questo non deve più accadere a noi". Io son sempre stato favorevole alla prima lezione di Auschwitz, e ritengo che la seconda conduca alla catastrofe». La seconda lezione glorifica e danna, intreccia disastro e redenzione: l'ebreo si riscopre unico tramite l'unicità del crimine, e l'unicità diventa chiave dell'identità. In quest'ottica ci sarà sempre bisogno di Hitler oltre che di Dio, a garanzia dell'elezione del popolo biblico. Barbara Spinelli (3 - Continua) Ma c'è un'elite contraria alla strumentalizzazione politica dei traumi passati C'è chi ha bisogno di Hitler oltre a Dio, a garanzia della elezione del popolo biblico Per Amos Elon, il Genocidio è diventato uno dei pilastri dell'identità dello Stato ebraico I nuovi storici attenuano la lezione dell'unicità della Shoah per mostrarne il volto universale Qui accanto un vagone bestiame usato dai nazisti per trasportare i deportati ad Auschwitz al Museo dell'Olocausto a Gerusalemme Sopra, ebrei ultraortodossi nella capitale I TORMENTI 2 DI ISRAELE J.