Sicilia, ostaggio eterno dell'afa

Sicilia, ostaggio eterno dell'afa Sicilia, ostaggio eterno dell'afa Così si convive con il fuoco dell'Africa L'ALTRO VOLTO DELL'ISOLA BOLLENTE TAORMINA 1 NQUIETANTE come un pipisi strello, il ventilatore appeso all'alto soffitto spala inutilmente l'aria sciroccosa. Fuori persino le cicale si sono azzittite, a segare la controra son rimasti i calabroni. Il sole incendia la buganvillea e, purtroppo, anche l'ultimo verde di Monte Venere. Quarantadue all'ombra a Messina, idem a Catania, 45 a Siracusa, «terra amurusa», e qui, a Taormina dove sudo questo amarcord ferocemente estivo, anche qui il termometro segna, crudele, i suoi 38 gradi. Ci si sfoga al telefono, di villa in villa: «Mai a memoria d'uomo un caldo così», «Finiremo tutti nel buoco d'ozono come in una discarica», «E' la fine del mondo». Invece è soltanto e sempre l'estate della Sicilia, dove Palermo è più vicina a Tunisi che a Roma. Certo, oggi, l'aria condizionata è l'arma migliore per sconfiggere lo scirocco rovente che abbiocca i cani e fa disperare gli asini ma, poi, scopri che a parte gli alberghi - dal leggendario «Timeo» a «Villa Paradiso» - l'aria condizionata sono in pochi ad avercela. E non già per tirchieria ma perché, assurdamente, i siciliani non ammettono che si usi violenza all'estate. «Fa caldo perché deve fare caldo, così come d'inverno deve fare freddo: voghamo forse abolire le stagioni?». Ma queste sono giornate di eccezionale calura, sono 20 anni, scrivono i giornali e ripete la tv, che non si registravano «temperature talmente torride». Sciocchezze, ti rispondono, ogni anno è la stessa solfa, non ci bastano i ventilatori? E, poi, di caldo non è mai morto nessuno. Ma come, replichi, sull'orlo dell'isterismo, non leggete i giornali?: cinque, otto, anzi, sono i «deceduti a causa dell'anomala ondata di caldo». Risposta: sarebbero morti comunque, si vede che quello era il giorno loro destinato, caldo o non caldo. Ecco i discorsi identici a quelli che ascoltavo da bambino. In Sicilia, a parte l'aria condizionata, è sempre la stessa estate e non è immutato il fastidio verso chi si lamenta del caldo eccessivo. Andando su e giù con l'ascensore della memoria si recupera la gioia straripante che ci possedeva in estate all'annuncio paterno: da domani alla Plaja. La Plaja è la spiaggia deputata di Catania, lunga (allora) 16 chilometri almeno, tutta di sabbia chiara e pressoché impalpabile; soltanto a Mogadiscio ne ho trovata una così. Bianca come la magnolia palestinese, leggera siccome la crusca dei vecchi mulini. Alla Plaja c'erano molti stabilimenti balneari, la gente-bene prendeva le bagnature alle cosiddette «cabine private» del Lido Azzurro, dove si affittava un capanno ch'era una piccola casetta, in verità. La veranda (coperta), un vano-spogliatoio con la doccia, un altro per il pisolino postprandiale, la cucina dove la servitù cucinava su di un fornello chiamato Primus pranzi a base di «pasta con la Nor ma» (spaghetti con melanzane < zucchine fritte), enormi arancini di riso farciti di carne e piselli, vitello tonnato eccetera. Il tutto innaffiato con vino nero di Mascalucia, 13 gradi, ingentilito da pezzi di ghiac ciò ricavati dalla balata azzurrognolo-argento odorosa di ammonia ca, che un omino stipava ogni mat tina nella ghiacciaia. L'acqua l'an dava a prendere la fantesca, due volte al giorno, riempiendo alla fontanella (una ogni tre «cabine») una capace quartara di terracotta, mutuata dalle anfore con cui i romani trasportavano il grano. Dal capanno al mare correvano pochi metri, la sabbia era di fuoco ma mercè una passerella di legno si poteva raggiungere la battigia per poi, finalmente, immergersi nell'acqua marina. Oggi si corre rapidi, ci si tuffa con iattanza pseudosportiva, gravati da pinne, maschere, boccagli eccetera; in quel tempo lontano, invece, immergersi nell'acqua comportava una rigorosa liturgia. Pochi passi dalla battigia verso la risacca spumosa fino ad aver le caviglie nell'acqua. Poi qualche passo ancora per fermarsi con l'acqua alle ginocchia. Lieve piegamento del torso in avanti mentre con le mani a coppa ci si bagnava: a) la nuca; b) la pancia; c) la zona precordiale del torace; d) una volta ancora la nuca. Infine, con una giravolta incantevolmente guidata da una felicità indescrivibile, ci si calava nello Ionio limpido, odoroso di alghe e di telline. (Ecco perché i bagni di mare si chiamavano bagnature). L'immersione nell'acqua durava a lungo, vegliata dai genitori che ci cospargevano la testa di acqua affinché non prendessimo la temuta «insolazione». Infine quando le dita delle nostre mani bambine erano un po' rattrappite, i genitori comandavano il ritorno al capanno. Niente doccia, per carità: avrebbe annullato i benefici dello iodio e della salsedine, mistura che in età adulta ci avrebbe salvato dai reumatismi... Qualcuno che si beccava lo sturbo c'era, anche allora il solleone non guardava in faccia nessuno, che diamine. Ma si trattava sempre di persone pletoriche che - poniamo -, prima di ficcarsi in acqua s'erano fatti almeno tre bicchieroni di acqua gelata, corretta con generose aspersioni di «zammù»: superalcolico estratto dall'anice versione sicilia dell'«arak» arabo. Provvedeva il bagnino a salvarli dai 50 centimetri d'acqja dove rischiavano d'affogare, provvedevano le mogli a rianimarli con bicchieroni di vov seguiti da un meritato riposo nel vano più fresco del capanno. Alle 6 del pomeriggio, dopo una lunga interruzione per il pasto, i cavalieri erano in forma per il tressette, i signori antichi per il ramino. Tutte le estati eguali e tutte estati felici. In agosto s'interrompevano le bagnature per la montagna: tutta la Catania-bene si trasferiva alle pendici dell'Etna: da Trecastagni a Pedara, da San Giovanni la Punta a Zafferana Etnea. Qui un giovanissimo Vitaliano Brancati passeggiava sulla piazza protesa come un trampolino alto 700 metri sulla lontana spiaggia di Alcantara, a braccetto col professor Guglielmino, filosofo insigne, antifascista crociano. Sempre la stessa passeggiata: dal caffé dì donna Peppina al caffé Tomarchio, leggendo la «Critica», avendo avuto l'avvertenza di chiosare a margine gli scritti di Benedetto Croce così: «No, non sono d'accordo» - «Intollerabile!» - «Buffone!». Codesto espedien- te ingenuo funzionava perché gli sbirri dell'Ovra (anche loro a Zafferana, diciamo in mezza vacanza) si convincevano (o fingevano?) che Brancati e Guglielmino e mio padre e il notaio Arena eccetera leggevano sì la rivista di Croce ma per riprovarne il contenuto. A dispetto del caldo atroce che arrivava sino a mezza costa dell'Etna insidiando persino gli annosi castagneti, erano, quelle, estati febei. Tutto finì - la felicità, dico, il rito delle bagnature, eccetera - nel 1939. Fu l'ultima estate di quel tempo felice, durante la quale fingevamo tutti, grandi e piccini che nulla fosse cambiato. «La Guerra!»: questo il titolo a nove colonne del «Popolo di Sicilia» il 2 di settembre. 11 professor Guglielmino dopo aver ricevuto il giornale da mio padre - il suo pallore è rimasto ancorato nella mia memoria più profonda -, se ne coprì il volto. «E' il mio lenzuolo funebre», disse e subito spiegò: «Adesso anche il maestro elementare vorrà salire sulla cattedra della morte». Fu facile profeta, l'estate del 1940 non andammo più alla Plaja, era scoppiata la guerra, non ricevevamo più le lettere care dei nostri amici Grinstein, scacciati da Catania perché ebrei, il destino ci sollecitava a raggiungere Roma. Quello capitolino era un caldo sciroccoso ma certamente meno torbido del siciliano, eppure ci sono voluti anni uifiniti per adattarsi a subirlo. Tornai a Taormina nella remota estate del '49-'50, giusto in tempo per incontravi Truman Capote e il sommo André Gide. In pantalonibermuda avanti lettera, Capote girava per Taormina, piccolo e gravato da un'enorme borsa (in paglia) che gli serviva a fare la spesa. Parlava meessantemente male di Gide, criticava la sua «smania» di assistere ai combattimenti di lotta libera nella cavea del teatro greco-romano (ove, nel 1950, il ventinovenne regista e attore Cutrul'elli portò al successo il «Re Candaule» di Gide, già fischiato a Parigi), epperò mi raccontava vizi e splendori di Tangeri, e una lettera mi diede per Bowles, già allora signore e vate di quel luogo mitico. Gide percorreva i saliscendi di Taormina proteggendosi dal caldo infame (ieri come oggi) con un cappello che sembrava una nutria di paglia, i pantaloni arrotolati sulle caviglie squamose, sandali da frate. Fu la cortese padrona del «Timeo» ad arrangiare l'incontro tra il giovine cronista e il Grande Vecchio. Per ringraziare la signora che mi aveva procurato l'impensabile intervista, comprai un bel mazzo di rose gialle. L'appuntamento era al bar del «Timeo», odoroso di buon legno passato a cera d'api t di Pernod. Quando m'avvicinai al banco delle mescite, Gide mosse due passi verso di me, protendendo le braccia ad accogliere le rose destinate alla signora. «Comme vous etez gentil», esclamò. Era l'estate del 1949. Il termometro segnava 38 all'ombra, il ventilatore-pipistrello spalava aria rovente e gommosa, un po' tutti si lamentavano del caldo «mai visto», ma eravamo felici, chissà perché. «Chi possiede la felicità si nasconda. O nasconda agli altri la sua felicità», fa dire Gide a Re Candaule. Igor Man I siciliani non ammettono che si usi violenza all'estate con l'aria condizionata «E' torrido perché in questi mesi non può essere altrimenti» Scene dal grande caldo: dalla Sicilia (a lato alcune donne cercano refrigerio all'ombra) ad Atene (a sinistra) si cerca di sfuggire all'afa insopportabile