Era scritto: dovevamo perdere di Paolo Guzzanti

Era scritto: dovevamo perdere Era scritto: dovevamo perdere E la Francia ci ha riportati alla realtà E, PARIGI tutti i bambini francesi con il loro azzurro sulla faccia che scoppiano di gioia e i nostri ragazzini italiani con il verde intorno agli occhi, traumatizzati. Una pena, una tristezza, una frustrazione dolorosa che non avrei mai immaginato, cala sullo stadio di St-Denis come una nube di lacrimogeno e tutto diventa ossessivo, le trombe dei vincitori, la loro giustificata follia, l'uscita da questo stadio di cui la stampa inglese ci aveva decantato i servizi igienici e che invece offre delle file disumane davanti a un muroorinatoio. Che partita schifosa. E poi tutti quei nostri cugini d'Oltralpe che ci hanno goduto a schiacciarci, a umiliarci, trattandoci ancora una volta da «Italie, terre de morts», sia pure di morti sventurati, furbetti, inconcludenti, mai a scuola dai brasiliani, tutti infighettati nei loro musi, nel broncio del malconcio, nel tepore acidulo del convalescente, tutti con una giustificazione sul libretto, tutti con la mamma malata e il tendine arrossato, il ginocchio sconocchiato, la bua di qua e di là, e più di tutti quel terribile Muto, il gran ficcatore di palle Vieri, che sembrava in preda a un ciclo ormonale in ribasso o forse in preda a un odio cupo e inerte per Maldinone (che in panchina è stato uno show continuo), il quale testardamente, cocciuto e antipatico non aveva voluto riconoscergli il merito di essere la star, la sola star, l'unico con palle sufficienti da spedire le palle in porta, e invece di dirgli grazie, nostro insperato dio pallonaro, ti adoriamo così come deve farsi in questo sport scemo e gemale, macché: se Vieri ha segnato è perché si vede che gli han passato delle buone palle. Come quelle maestre che dicono se il ragazzo ha saputo risolvere il problema, vuol dire che ha copiato. Ma come: copiato? Vieri? Ma quello, che è un cupo personaggio di Bunuel creato in Australia, era ormai stufo marcio di sentir dire che questo era il campionato del mondo di Del Piero e tutt'al più di quel che resta di Roberto Baggio. Vieri è come Squalo nei film di James Bond: se è innamorato lavora bene e tace. Se è incavolato fa sciopero e tace. Certo, il suo carattere taciturno ha prodotto le più realistiche interviste di questa avventura francese. Ma oggi, cioè ieri per voi che leggete, c'è stata la rivoluzione dei tifosi venuti dall'Italia con gli occhi fuori dalle orbite per il sonno e che gridavano Del Piero sei una sega, anche se sapevano di esagerare. O Baggio sparisci e non farti più vedere. Certo, il primo crollo degli zuccheri l'abbiamo avuto con il tiro banale del povero Albertini. E di lì s'è capito che poi, in fin dei conti, nel calcio c'è anche un dio greco muto sordo e ingiusto come un arbitro, ma pur sempre un dio. Nel senso che lo sbaglio di Albertini ha fatto capire che finiva male tutto, che tirava aria da otto settembre, tutti a casa, i generali non hanno combattuto, i nemici dilagano cantando e tambureggiano, giocando per di più in casa loro. Ma il povero Albertini era soltanto la mano, anzi il piede ispirato dal dio del pallone, che aveva deciso di far vincere la Francia perché diciamo la verità, arrogante quanto vi pare, ma la Francia se l'era propria meritata questa vittoria. La Francia che ama il calcio con un pizzico di schifo perché adora il rugby, la Francia in cui con sapienza sopraffina si fanno i campionati del mondo preoccupandosi prima di tutto di tutti i protestanti che non vogliono avere le palle rotte dalla palla che è rotonda; la Francia calvinista e ugonotta che beve da dio e prepara dei paté che richiedono secoli di sacrifici come per fare i dolci. Insomma, la Francia alla quale noi abbiamo insegnato attraver¬ so la Juve e il campionato nostrano a giocare il calcio, sarà arrogante, ma ci ha ricondotto sul cammino della realtà. Pensate che disgrazia avessimo vinto aiutati da Santa Pupa e altri aiutanti strapaesani e avessimo poi dovuto incontrare squadre che ti fan¬ no a pezzi, che umiliazione. Invece, tiè, abbiamo la soddisfazione di dire che quel dio cupo ingiusto e crudele che ci ha eliminato ai rigori, ci conosce bene nella nostra mania storica per la resa con l'onore delle armi e ci permette, ohibò, di uscire invitti sul terreno di gioco perché i gol non li abbiamo presi facendo una partita ma durante una decimazione. Delusi è vero, onestamente battuti in quel giudizio di dio dei calci di rigore, ma a testa alta. Male, malissimo credere di essere usciti a testa alta. Certo, avremmo potuto vincere (la palla essendo approssimativamente sferica) ma abbiamo perso. E la gente era furiosa, disperata e io stesso, che - mi scuseranno i lettori - sono assolutamente una bestia, uno che non sa niente di calcio, io stesso avevo ed ho tuttora un pugno permanente qui alla bocca del piloro che si ripercuote alle tempie e si fa sangue di lacrime, emicrania omerica, in quella processione di francesi e italiani all'uscita dallo Stadio dove fra l'altro non si trova un taxi neanche a bestemmiare e io ero lì senza uno straccio di accredito, una sala stampa, un telefono, niente di niente e dovevo invece correre in albergo per scrivere quel che state leggendo mentre fuori cala la tenebra dell'estate francese che è frescolina, champenoise tanto quanto la nostra è africana o alluvionale, bè quella gente non la scorderò mai perché si trascinava per chilometri verso St-Denis pittata come comparse di un film di Fellini, la morte nel cuore, le spalle piegate, le donne della tifoseria italiana ancora erette e gli uomini invece da raccogliere col cucchiaino. E insomma, i taxi passano ma non se ne ferma uno finché dico: Cinquecentofranchi e glieli sventolo, il seguito lo avete capito: dentro di me penso, rivincita, vi ho corrotto. Perché il tassì non era dei patrioti che correvano sulla Mania a sparare ai tedeschi, ma di un disgraziato che l'aveva affittato e il tassista ha invece portato via me per cinquecento franchi da quella folla che era dantesca mentre il treno era bloccato per una supposita bomba e adesso mentre scrivo s'è sentito un botto all'aeroporto Charles de Gaulle e girano questi superpoliziotti tipo «Leon» con tutte le loro mitragliette e maschere. Vorrei che la televisione quando dà una partita, la televisione sempre generosa sulle caviglie dei giocatori, l'azzoppamento in diretta e differita tibia dopo tibia, primi piani del naso di Cesarone e dei suoi capelli, be' vorrei che le telecamere avessero seguito un po' di più l'odissea e la meraviglia di queste tifoserie. Compresa la nostra, fatta di ragazzi e ragazze, padri e figli, sorelle, amici del bar, tutta la truppa della nostra Italia di cui sventuratamente come si sa, il calcio è una metafora. E non si riesce a zittire questa baggianata che il calcio è una metafora perché ci sono dei rompiballe professionisti che impestano pagine giornalistiche di insulsaggini per dire che l'Italia vista dal campo di calcio è questo e quest'altro, mentre si trattava molto più semplicemente di dire a Vieri: guarda Christian Vieri che noi ti vogliamo bene e lo sappiamo che se non c'eri tu e si stava ad aspettare quei due sui quali si spaccava l'Italia, lo sappiamo bene la figura che facevamo da subito fin da Bordeux: era roba da spararsi una chiodata in fronte. Ma siccome io sono un povero spettatore turbato dalle pallonate di questo campionato di pallone, non mi azzardo a dire nulla e per non farmi troppi nemici dico che hanno ragione loro, che la squadra era così che andava fatta e condotta. E aggiungo che soltanto una sfortuna sfigatissima ci ha piegato, altrimenti noi si sfondava Parigi e si arrivava fino a Calais. Ma allora, perché piangevamo tutti come bischeri a SaintDenis, perché tutti stavano così male ed erano così inveleniti, delusi, incattiviti? Perché abbiamo perso e dovevamo perdere, maledizione. Paolo Guzzanti