«Epatite, epidemia creda in ospedale» di Daniela Daniele
«Epatite, epidemia creda in ospedale» «Fonte del contagio è stato un paziente, ma poi l'infezione si è estesa a causa delle scarse norme di prevenzione» «Epatite, epidemia creda in ospedale» Le accuse della commissione ministeriale dopo HO morti ROMA. Dieci morti per epatite B e un solo killer: la trascuratezza. Ora è sicuro. L'infezione che ha l'atto strage nel reparto di ematologia di Pesaro «è sicuramente di origine ospedaliera» e la fonte del contagio è «un paziente, portatore cronico del virus, ricoverato mentre era in corso una riattivazione dell'infezione». Le modalità del contagio si devono a una serie di fattori che non fanno troppo onore al personale ospedaliero. A queste conclusioni è giunta la commissione ministeriale, presieduta dal prof. Luigi Zanesco, che ieri ha consegnato la relazione al ministro della Sanità, Rosy Bindi. Gli esperti non sono riusciti a evidenziare, in modo inequivocabile, «una singola procedura o manovra diagnostica che possa essere ritenuta responsabile esclusiva del contagio». Ma pare accertato che l'origine dell'epidemia sia da ascriversi ad una serie di cause, tutte riconducibili alla scarsa diligenza nelle comuni e normali norme di prevenzione, comprese quelle am- bientali, contro le infezioni che si possono contrarre, e sono parecchie, in ambiente ospedaliero: il non costante uso di guanti, la conservazione non corretta di sangue residuo, l'esecuzione nello stesso locale di aferesi (tecnica che consente l'immediata separazione dei vari componenti del sangue; di altre manovre invasive, la conservazione del virus hi un criocontenitore ad azoto liquido, e via elencando. Per non parlare del fatto che il ricovero «promiscuo» di portatori di HBV (il virus dell'epatite B) e di malati con epatite in fase acuta, «senza particolari misure di isolamento», può aver consentito un «inquinamento dei locali di degenza, delle sale di medicazione, delle toilette». La ricerca della commissione si è concentrata, in modo particolare, sulle condizioni del locale in cui si fa l'aferesi. E' una stanza «di piccole dimensioni, con pochi piani d'appoggio dove venivano praticate, oltre alla aferesi, altre pratiche invasive, una delle quali comune a quasi tutti i pazienti». In una situazione, dunque, di alto rischio di contagio. L'epatite B, tuttavia, soltanto neh' 1 per cento dei casi si manifesta nella forma fulminante. Che cosa ha determinato un improvviso, quanto inatteso da parte del personale sanitario, aggravamento? L'evoluzione della malattia, secondo la commissione, potrebbe essere imputata al concorso di più fattori, quali: la coesistenza di patologie neoplastiche, la somministrazione di farmaci potenzialmente dannosi per il fegato, la riattivazione della risposta immune citotossica dopo cicli di terapia, l'infezione da virus mutante. Nessun indizio, invece, che possa far pensare al sabotaggio, ipotesi sulla quale il primario del reparto, il professor Guido Lucarelli, aveva suggerito di indagare, né alla sperimentazione incontrollata. «E' difficile - commenta Lucarelli - pensare alle toilette o all'uso dei guanti, ma è chiaro che l'infezione c'è stata, e da qualche parte è passata». Ma nega che la sala dell'aferesi sia utilizzata per altre pratiche. I risultati dell'inchiesta saranno trasmessi alla Regione Marche e alla magistratura. Tra non molto, dunque, si saprà se dieci morti hanno un colpevole, sia esso una persona o una malpratica ospedaliera. Daniela Daniele L'ingresso dell'ospedale di Pesaro, teatro delle morti per epatite B sui cui ha indagato una commissione ministeriale
Persone citate: Guido Lucarelli, Lucarelli, Luigi Zanesco, Rosy Bindi
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