Le stelle del picconatore di Filippo Ceccarelli

Le stelle del picconatore I simboli: addio falci, martelli e fiamme; ecco alberi e fiori Le stelle del picconatore BROMA UIO in sala (tanto per cambiare). E poi l'ormai sperimentato e scontatissimo fascio di riflettori illuminerà l'ennesimo simbolo di questa Seconda Repubblica che ne produce fin troppi, di simboli - se ancora si possono chiamare così. Quest'ultimo dell'udr - sigla bianco rosso e verde in campo blu, stelline europee e fatidico scudino crociato - risulta almeno creato di suo pugno dal fondatore del nuovo partito. Tra i molteplici hobby di Cossiga c'è infatti anche la vessillologia, o studio delle bandiere, che in campo politico casualmente l'ex presidente condivide con due leghisti. Uno è l'onorevole Lembo, che a suo tempo ha anche partecipato a Rischiatutto; l'altro è il ministro dell'Identità padana e consigliere mitico-simbolico di Bossi Gilberto Oneto, le cui dotte dissertazioni sugli antichi drappi padani - dalle origini precristiane della croce ai rapporti tra il leone di San Marco e l'iconografia mesopotamica - vengono spesso pubblicate, con schede illustrate a cura dell'autore, sul settimanale di alleggerimento leghista Sole delle Alpi. Cossiga non è così addentro alla disciplina. E tuttavia, prima di dedicarsi al colore della bandierina dell'udr - evitando lo sfondo «celestone» di Forza Italia - s'è applicato proficuamente agli stendardi dei reggimenti sardi e al vessillo della Presidenza della Repubblica, ma invano ha ambiziosamente tentato di riformare lo stellone della Repubblica, croce e delizia di ogni professore d'ornato. Passi per le stelline (già inaugurate dalla lista Dini), ma da vero intenditore di araldica, Cossiga è parso un po' a disagio dinanzi alla trovatina dello scudo crociato «piccolo piccolo». E' ormai una ventina d'anni (1978, congresso del psi di Torino) che senza alcuno scrupolo iconografico i leader rimpiccioliscono falci, martelli, fiamme e ora anche scudi e garofani, mossi dal più furbo «vorrei ma non posso» (con qualche variante «potrei ma non voglio»). All'orrido rimpicciolimento dei gloriosi utensili della Prima Repubblica fa riscontro, d'altra parte, una tendenza al più grottesco affastellamento simbolico. Alberi (pds, Ulivo), in prospettiva, da cui pendono croci, e alle cui radici si danno la mano uomini vetruviani (rete). Orsacchiotti (Pivetti) che si scaldano al sole (soie nascente psdi, so.le. «ferriano» post-psdi, sole che ride verde, sole delle Alpi padano), mentre le stelle (Dini) fanno brillare la spada del guerriero (Lega) con la faccia di Gandhi (radicali). E la vela, intanto (ccd), punta verso la margherita (verdi dissidenti). Così come la coccinella di an, che Fini confessò candidamente di aver scelto perché «portava fortuna», s'arrampica sulla torre. Effimero emblema, quest'ultimo, del partito federale, ora defunto, magari anche per via della zuffa sui merli disegnati in cima alla suddetta torre, che il professor Miglio pretendeva a coda di rondine, cioè ghibellini. Un'effervescenza simbolica che ha dell'incredibile. Più i partiti perdono autorità, e più aumentano gli stemmi. Ogni movimento che nasce si rappresenta e talvolta si fa addirittura precedere da uno stemma che prescinde da qualsiasi politica. Ecco allora arcobaleni senza piogge e senza colori, ponti su cui nessuno passa, rose vanamente contese, cavalli al galoppo che nulla evocano, se non ohi per automobili... Simboli, in realtà, privi di valore simbolico. Paradossi che non riassumono ideali, non parlano all'inconscio, non trasmettono verità nascoste, non trasformano il fenomeno in idea e l'idea in immagine. Chi si emozionerà oggi nel vedere raffigurata l'assenzione sintetica dell'udr? Chi scommetterebbe una lira sulla sopravvivenza dell'attuale iconografia della quercia? Chi si batterebbe a duello per difendere l'onore della vela di Casini? Più che simboli, ormai, sembrano marchi utili a catturare la breve curiosità dei media e nel migliore dei casi a coltivare sbocchi di vendita. In questa inesorabile dipendenza dal marketing sta però tutta la loro modernità e leggerezza. E difatti neanche il vessilologo Cossiga, pur così esperto e sorvegliato in fatto di campi, losanghe, fasce, cornici e gheroni, ha potuto farne a meno. Ma chiamarli ancora simboli, francamente, pare più che azzardato. Filippo Ceccarelli

Luoghi citati: Rischiatutto, Torino