La commedia degli equivoci

La commedia degli equivoci LA «PROVINCIA La commedia degli equivoci Da Washington armi e pugnalate a Taipei SHANGHAI A quando Bill Clinton è arrivato in Cina con il suo corteo imperiale, una piccola commedia dal sapore beckettiano è andata in scena in contemporanea allo spettacolo principale. Titolo: «Aspettando i "tre no" a Taiwan». La nuova «partnership strategica» tra Stati Uniti e Cina ha spinto a nuove vette il livello di nervosismo nell'isola dall'altra parte dello Stretto. Lo si capisce anche dalla copertura ansiogena che il nutrito gruppo di reporter taiwanesi al seguito di Clinton sta facendo di questo viaggio. Passa un collaboratore del Presidente e subito lo acchiappano dal bavero: «Riaffermate i "tre no" a Taiwan? E' cambiata la posizione americana? Quali assicurazioni intendete dare al governo di Taipei?». Gli americani ripetono che non c'è da preoccuparsi, che nulla è cambiato. Ma ogni loro sillaba su questo delicato argomento viene comunque soppesata e discussa all'infinito. I «tre no» si riferiscono alla posizione ventennale degli Stati Uniti sulla questione Taiwan: no al riconoscimento ufficiale, no al concetto delle «Due Cine», no alla partecipazione di Taiwan nelle organizzazioni internazionali. E' una posizione che gli americani confermano sempre sottovoce, per non spaventare i taiwanesi. II timore di Taipei era che in questa occasione Clinton si piegasse alle pressioni della Cina e ribadisse i «tre no» con più enfasi del solito, forse addirittura in un contesto ufficiale a Pechino. Il governo ha messo in piedi una unità di crisi ad alto livello allo scopo di registrare ogni mormorio dell'Amministrazione su questo punto durante il viaggio in Cina. E quando Clinton ha lasciato Pechino per Shanghai, lunedì sera, senza aver pronunciato i «tre no» in sede ufficiale, un gran sospiro di sollievo si è levato dall'isola. Ma i «tre no» andavano in qualche modo ribaditi da Clinton per non lasciare uno strascico spiacevole in Cina, dove la «riunificazione della Madre patria» è diventata, dopo il recupero di Hong Kong, il principale obiettivo politico. «Li confermeremo - è andato ripetendo il portavoce della Casa Bianca Mike McCurry -. Non so come, non so quando, ma li confermeremo prima di lasciare la Cina». E ieri mattina, a sorpresa, nelle pieghe del dibattito con gli imprenditori di Shanghai, Clinton ha finalmente pronunciato le fatidiche parole: «Ho avuto modo di confermare ai cinesi la nostra politica di sempre, e cioè che non appoggiamo l'indipendenza di Taiwan, né la nozione delle Due Cine. E non crediamo che debba far parte di organismi internazionali che riclùedano ai membri di essere Stati sovrani». Una formula fatta apposta per tenere tutti nel vago: «Che significa quel "crediamo"?», hanno subito chiesto i giornalisti di Taiwan. Questi equilibrismi verbali, tuttavia, non alterano la sostanza: la questione di Taiwan rimane una spina insidiosa nel fianco della partnership sino- americana. Gli Stati Uniti vendono armi sofisticate al governo di Taipei e Clinton ha ribadito pochi giorni fa che continueranno a farlo per permettere a Taiwan di difendersi. Ma fino a che punto Washington è disposta a venire in aiuto all'isola in caso di un attacco cinese, ora che il rapporto con Pechino è diventato così prioritario? Due anni fa la Cina decise di verificare la determinazione di Washington sparando due missili in direzione di Taiwan. Clinton reagì mandando due portaerei americane a difendere l'isola. Seguì un periodo di forte tensione tra Washington e Pechino. L'episodio mostrò chiaramente alle due parti fino a che punto il loro rapporto fosse vulnerabile. Negli Stati Uniti il partito favorevole a un ruvido «contenimento» della Cina alzò subito la voce, facendo anche fosche previsioni su una guerra sino-americana provocata da un'offensiva di Pechino contro Taiwan. Ma l'istinto dell'Amministrazione fu di segno opposto: la crisi del 1996 su Taiwan fu così pericolosa da convincere Clinton e i suoi collaboratori che era venuto il momento di accelerare l'avvicinamento tra Washington e Pechino in vista di una solida partnership per il XXI secolo. La visita di questi giorni è il frutto di quell'accelerazione. E negli ultimi due anni l'apprensione di Taiwan è andata progressivamente aumentando. «Siamo sempre stati studenti modello - protesta Huang Chaoyuan, un professore di fisica che proprio in questi giorni ha organizzato una manifestazione contro l'avvicinamento di Washington a Pechino -. Abbiamo costruito un sistema democratico e libero come voleva l'America. Perché ci volta le spaile?». Gli americani cercano di rassicurare Taiwan premendo sulla Cina perché avvìi un negoziato per la riunificazione. Ma ogni giorno che passa le carte in mano a Taipei s'indeboliscono. Alla fine l'unica cosa che ancora rimane ai taiwanesi in vista di un'eventuale trattativa con Pechino è il cauto fraseggio di Clinton sui «tre no», il fatto che persista a non parlarne in una sede formale. E a questo piccolo-grande dettaglio Taiwan ormai si aggrappa quasi con disperazione. Andrea di Robilant I no all'indipendenza, al concetto di due Cine e all'ingresso dell'isola nelle organizzazioni internazionali sono stati ribaditi, ma fuori da Pechino Sopra, Clinton nella sede della radio di Shanghai durante il talk show Qui a destra il presidente Usa nei panni di Mao in un disegno di «Time»