Leopardi in trionfo nel natio borgo rinnegato

Leopardi in trionfo nel natio borgo rinnegato Mostre e gigantografìe: Recanati celebra il bicentenario Leopardi in trionfo nel natio borgo rinnegato RECANATI UESTA porca città, dove non so se gli uomini siano più asini o più birbanti», scriveva Giacomo Leopardi al medico Francesco Puccinotti il 21 aprile 1821. Il ventitreenne poeta parlava di Recanati, naturalmente, mentre si preparava a fuggirne; e non avrebbe perso occasione, anche lontano, di dirne tutto il male possibile. Come quando, da Firenze, mandò alla sorella Paolina il ritratto inciso dal Guadagnini: il solo a noi tramandato. «E' bruttissimo; nondimeno fatel girare costì accioché i Recanatesi vedano che il gobbo de' Leopardi è contato per qualche cosa nel mondo, dove Recanati non è conosciuto pur di nome». Il gobbo de' Leopardi cercava una smentita, e ne ha avute tante, da allora. Proprio la sua «porca città» festeggia il bicentenario della nascita (29 giugno 1798) tutta pavesata dalle gigantografie di quel ritratto, che campeggia nelle piazze, occhieggia dalle vetrine, si allarga nei manifesti, si restringe nel formato mignon del fancobollo, emesso oggi in onore del poeta. In compenso Recanati è conosciuto non pur di nome, ben oltre i confini della Toscana che il figlio del conte Leopardi identificava con il mondo, n natio borgo selvaggio è un punto luminoso nell'atlante della civiltà universale, le sue quattro sillabe corrono su Internet, vengono cercate dai navigatori dell'era elettronica. La libreria virtuale Amazon di Seattle, negli Stati Uniti, ha già raccolto 624 titoli leopardiani, in tutte le lingue, da offrire ai suoi clienti elettronici sparsi nel mondo. E navigando su Internet ha appreso l'esistenza di Recanati un signore di Sydney cheopera in una società di consulenza per avere successo, si chiama Paul Leopardi, di lontane origini sicule, non ha nulla in comune con la discendenza del poeta, ma ha sentito il dovere di prendere un aereo ed è arrivato qui, per partecipare anche lui alle celebrazioni. Ma ci sono smentite di altra ria tura: come quella che possiamo scoprire nella mostra «Giacomo 1798-1998», allestita in Palazzo Leopardi dalla famiglia, con il Cen- tro di Studi Leopardiani. «Un viaggio nella memoria che noi stessi abbiamo percorso nel cercare le radici del pensiero leopardiano, concentrando la nostra analisi soprattutto nella biblioteca dove Giacomo trascorse insieme al padre ed ai fratelli gli anni formativi della sua giovinezza», scrive la contessa Anna Leopardi nel catalogo. L'inciso «insieme al padre» non è superfluo, e accresce il senso della sorpresa. Quel povero Monaldo, il reazionario papalino messo alla gogna dalla tradizione risorgimentale, si rivela un personaggio illuminato quasi a proprio dispetto, capace a raccogliere nella propria casa e mettere a disposizione dei figli i più imprevedibili strumenti di conoscenza. E questi strumenti fruttificano, nella lettura di Giacomo - magari in antagonismo col padre - per la elaborazione del proprio pensiero, soprattutto per l'allargamento degli interessi, oltre la siepe che il guardo esclude. La curatrice della mostra, Fabiana Cacciapuoti, ha ricostruito il cammino della memoria mettendo a confronto gli scritti del poeta con i documenti della sua formazione culturale, primi fra tutti le letture. Ci sono in vetrina - chi poteva aspettarselo? - la Storia naturale di Buffon e le planches delVEncyclopédie, i Fondamenti botanici di Linneo e il Robinson Crusoe. C'è - sorpresa delle sorprese un rarissimo Alfabeto delle Missioni Tibetane, 1762, insieme con la Relatione della Grande Monarchia della Cina che motivano le incursioni del giovane di Recanati fra i «dotti Chinesi». Soprattutto, la mostra ci aiuta a orientarci nella selva dello Zibaldone, presentato qui come esempio di arte combinatoria, sulle tracce di Leibniz. Il grande libro di Leopardi - ci spiega la Cacciapuoti - deve essere letto con una chiave, che lo scrittore ha nascosto nelle sue 555 schedine mobili con un sistema di iridici: «Ogni brano può essere inserito in uno o più percorsi e cambiare così di significato». Sistema modernissimo, che costringe a rileggere in modo nuovo; e modifica tante prospettive, anche di un pensiero che si credeva ormai codificato. L'ultima sorpresa - almeno per oggi - ci viene dall'altra mostra «Il tempo del bello», promossa dalla Regione Marche e dal Comune di Recanati sul tema «Leopardi e il neoclassico», nella Villa Colloredo Mels. Tema spigoloso fin dal titolo, se si pensa al rapporto dialettico che Leopardi aveva avuto con l'arte del suo tempo, e con il neoclassico in particolare. Il poeta della Ginestra non poteva amare un'arte pacificatrice, che tendesse alla perfetta calma, come scrive nello Zibaldone. «Una statua, una pittura con un gesto, un portamento, un moto spiccato ed ardito ci rapisce subito gli occhi a sé, ancorché in una galleria d'altre nulle, e ci diletta almeno a prima vista più che tutte queste altre s'elle sono d'atto riposato». E' vero, riconosce il curatore della mostra, Alberto Papetti: ma, nonostante le sue dichiarazioni, Leopardi era stato un grande ammiratore di Canova, che aveva cercato invano di conoscere personalmente (era arrivato a Roma solo dopo la morte dello scultore). E, scomparso Canova, si era accostato a Pietro Tenerani, uno fra gli alfieri del Purismo, molto richiesto dai committenti delle Marche. Proprio Canova e Tenerani sono i protagonisti della mostra, nella villa costruita dall'architetto Orazio Leopardi, prozio del poeta. E Papetti ha tirato fuori per l'occasione due pesantissimi assi dalla manica: un taccuino canoviano di 57 disegni, conservato nella Biblioteca di Cagli, dove il neoclassico svaria più volte verso il «moto vivo spiccato» caro al poeta; il busto funerario di Margherita Canton, Marchesa di Northampton, che Pietro "Itenerani stava scolpendo nel 1831, quando Leopardi andò a trovarlo nel suo studio romano. Era finito in una cantina nel 1922, torna alla luce oggi, e suggerisce ipotesi seducenti a chi lo guarda. Leggiamo il canto «Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima», i due pezzi coincidono: «Il simulacro / della scorsa beltà. Quel dolce sguardo / che tremar fé se, come or sembra, immoto / in altrui s'affisò; quel labbro, ond'alto / par, come d'urna piena / traboccare il piacer». E' lei? Lo studioso ci autorizza a pensarlo: anche attraverso il marmo neoclassico, filtra lo spirito di Leopardi. Giorgio Calcagno la chiamava «porca città», oggi Usuo nome corre su Internet: Amazon offre 624 titoli sul poeta Da sinistra, Monaldo Leopardi, padre del poeta, e Antonio Canova ultura GiacLeoda Fimpcontla picittàinvano di conoscere pers(era arrivato a Roma somorte dello scultore). E, Canova, si era accostatTenerani, uno fra gli alfirismo, molto richiesto dtenti delle Marche. Proprio Canova e Teneprotagonisti della mostrla costruita dall'architeLeopardi, prozio del popetti ha tirato fuori per Giacomo Leopardi da Firenze imprecava contro la piccola città natale