La follia sedotta dall'arte di Ferdinando Camon
La follia sedotta dall'arte Dalle martellate alla Pietà di Michelangelo ai fuochi in laguna La follia sedotta dall'arte GUARDO Palazzo Labia, di cui un piromane ha tentato di bruciare il portone posteriore, guardo la chiesa di San Geremia, di cui ha bruciato l'impalcatura che la sovrastava, e mi domando perché c'è chi tenta ostinatamente di incendiare l'arte. Ero a Roma quando fu riesposta la Pietà di Michelangelo, con la protezione di un vetro anti-urto, dopo che un pazzo (così definito dai giornali) l'aveva presa a martellate. La Pietà non ha nulla di divino. La madre guarda il corpo del figlio con un gesto che invita a guardarlo. Lo spettatore che guarda quel gruppo obbedisce a un invito che viene dal gruppo stesso. Guardavo, c'era un po' di gente (il gesto del pazzo pareva svelare nel gruppo signifi¬ cati prima inaccessibili), e mi domandavo: come si può prendere a martellate una statua come questa? Eppure, si può martellare, si può bruciare. Ci dev'essere una spiegazione. Anche se chi compie il gesto vien definito, allora, «pazzo», oggi «psicolabile»: ammesso che siano loro. Il «pazzo» che martellò la Pietà era uno scultore fallito. La Pietà gli esasperava il fallimento. La Pietà lo schiacciava. Tentando di distruggerla restituiva la distrazione che lui stesso pativa. La Pietà non ispira preghiere, né misticismo. L'arte non invita a Dio. «Voi - diceva Benedetto Croce ai preti che riempivano le chiese di opere d'arte voi praticate il diavolo». Il pazzo che martella la Pietà non è sotto la spinta di Dio, ma del_ diavolo. Palazzo Labia è vicinissimo a piazzale Roma: camminando cinque minuti si passa dal deprimente piazzale al dolce campiello. E' così bello, Palazzo Labia, che lì dentro non si può lavorare. E' la sede della Rai3 veneta, che forse per questo produce così poco. La dolcezza snerva. Chi sta lì dentro è in perenne sindrome di Stendhal. «Otium» chiamavano i romani le ore passate in case segnate dalla bellezza, «Deus nobis haec otia fecit». Come si può, in quel campo, sentire il furore, la vendetta, la voglia di bruciare? L'incendiario di San Geremia, se quel che trapela risponde al vero, è un alcolizzato in fase di autodistruzione. Ha fatto del campo la sua tana. Si raggomitolava negli angoli, guardava e taceva. Venezia è mortifera. «Morte a Venezia» si può dire, non si può dire «Morte a Parigi» ò «a Milano». Questi uomini con problemi psichici bisogna irnmaginarli in azione: quello della Pietà sarà stato pazzo, ma è stato vedendo la Pietà che gli è venuta l'idea, ha comprato il martello, ha fatto un salto verso la statua, ha preso a picchiare. C'è un rapporto tra la sua furia e quell'opera. Questo di Venezia vien presentato come un collerico, intrattabile, disamato dalla gente. Ha già tentato di incendiare la propria casa, l'incendio è la sua ossessione. Il fuoco gli bruciava dentro, nel cervello. Però è lì che l'ossessione gli è esplosa: se la ricostruzione è fondata, prima ha cercato di bruciare la chiesa, poi il palazzo, adesso la piazza. A Roma una soluzione l'han trovata: chiudendo la statua dietro un vetro. Campo San Geremia non ha soluzione: non si può mica blindare Venezia. Ferdinando Camon La Pietà di Michelangelo
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