Tibet, i turisti nelle catacombe

Tibet, i turisti nelle catacombe REPORTAGE VIAGGIO SUL TETTO BEL MONDO Tibet, i turisti nelle catacombe / monasteri tra repressione e rinascita LHASA DAL NOSTRO INVIATO Alle nove del mattino, poliziotti e doganieri cinesi nelle loro gallonate uniformi scendono ad aprire la sbarra della dogana di Zhang Mo, abbarbicata stazione di contrabbandieri e pellegrini del Kailash. Qui, a due passi dal Nepal, l'aria secca e tersa dell'altopiano è un ricordo: un'umidità collosa scende dal verde lussureggiante delle pendici himalayane e dal cielo brumoso. Nel fango della strada, arato dal passaggio incessante di grossi camion scalcinati che si lasciano dietro un acre alone azzurrognolo, turisti e commercianti cominciano a mettersi in fila. E' la principale via di scambio tra Tibet e Nepal, una pista stretta tempestata di frane, sempre a rischio di essere cancellata dall'ultimo smottamento: l'Himalaya si muove come un essere vivente, un gigante collerico che in cambio di pochi attimi di incantevole bellezza scatena improvvise e devastanti distruzioni. Mentre l'ufficiale cinese apre la scatoletta metallica dei timbri, un tibetano in coda si volta a guardare il sovrappasso dove campeggia la scritta: Frontiera della Repubblica Popolare Cinese. Sussurra allora all'orecchio di un turista francese: ma quale Cina, qui siamo in Tibet. Il confronto tra il dragone cinese e il leone delle nevi tibetano è una storia di secoli, fatta di guerre ma anche di lunghi periodi di concordia, quando là teocrazia dei Lama non disdegnava la protezione imperiale per immergersi indisturbata nella ruminazione del suo brulicante buddhismo. Oggi tra la Cina comunista e il governo tibetano in esilio a Dharamsala è in corso uno scontro propagandistico che non lesina i colpi sotto la cintura, tanto che diventa difficile capire dove finisca l'ideologia e cominci la verità. Un recente rapporto del Centro tibetano per i diritti umani e la democrazia denuncia, dal 1996, l'espulsione di 3993 monaci e monache dai loro monasteri, nel corso della campagna di rieducazione chiamata «Strike Hard», colpisci duro. La fonte del rapporto sono le interviste con gli esuli tibetani arrivati a Dharamsala dal 1977. L'intento di Strike Hard è di forzare i monaci a rigettare il nazionalismo, soprattutto la fedeltà al Dalai Lama. Dei 3993 monaci, 294 sarebbero stati arrestati, 14 uccisi; e 6 monasteri chiusi. Viaggiando per il Tibet in que- sti giorni, non si coglie un'atmosfera così esacerbata di repressione, anche se non c'è dubbio che i cinesi, specialmente in passato, si siano dimostrati capaci di cose peggiori. E anche oggi non scherzano: poche settimane prima dell'arrivo di Clinton a Pechino, la polizia ha ferocemente pestato una ventina di cattolici clandestini per il solo fatto di aver cercato di celebrare la Pentecoste. Quasi cinquant'anni di dominio cinese hanno in qualche modo piegato la tradizionale giovialità tibetana alla dissimulazione e annichihto la cultura naziona- le. E' un fatto però che oggi in quasi tutti i monasteri siano in corso lenti ma costanti lavori di ricostruzione: dai tre grandi centri Geluppa (la setta del Dalai Lama) intorno alla capitale, Drepung, Sera e Ganden, al tempio Karmapa di Tsurpu, al celebre Samye, il primo monastero buddhista della storia tibetana, al monastero Bòn di Yungdrungling, verso Shigatze, soltanto per citare, quelli visti direttamente. E a Sera, giovani novizi possono sfidarsi nei tradizionali duelli dialettici, simili a quelli che si tenevano nelle nostre università medioevali: un monaco in piedi elabora un'argomentazione dottrinale e la conclude mimando uno schiaffo all'avversario che accovacciato deve rintuzzare l'attacco ritorcendo o contro lo sfidan il ragionamento contro lo sfidante. Secondo Dharamsala, squadre di lavoro cinesi avrebbero passato al setaccio 1780 dei 1787 monasteri del Paese costringendo i religiosi a firmare un programma politico in cinque punti: opporsi all'idea di un Tibet indipendente, abiurare il Dalai Lama, riconoscere il Panchen Lama (il secondo pontefice della gerarchia tibetana) approvato da Pechino, denunciare i nazionalisti e lavorare per l'unità della madrepatria, cioè la Cina. Tutto ciò è probabilmente avvenuto ma i risultati non sono impressionanti. Nei monasteri periferici spunta sovente qualche furtiva foto del Dalai Lama, e la devozione dei tibetani per il loro leader spirituale e politico è più salda che mai. Il rapporto del Centro per i diritti umani denuncia poi che i cinesi si accaniscono contro i novizi e negano la tonaca a chi abbia meno di diciotto anni. Secondo dati aggiornati al febbraio '98, 937 novizi sarebbero stati espulsi dall'inizio della campagna di rieducazione. Può darsi che le cose siano cambiate soltanto da poco, ma in tutti i monasteri è possibile vedere novizi molto al di sotto dei diciotto anni. Certo, la vita religiosa non è più quella di una volta: prima del '59 a Drepung, il più grande monastero del Paese, c'erano 7 mila religiosi (qualcuno dice 10 mila), oggi ne rimangono più o meno 400. E Sera è passato da 3500 a 300. Probabilmente è la valuta forte portata dai turisti che spinge Pechino a tenere in vita il «circo» bud- dhista: ciò non toghe che i risultati di questa politica alla fine non siano così disprezzabili per la gente. I tibetani sono tornati a compiere pellegrinaggi, a riempire i templi, le ruote della preghiera hanno ripreso a mulinare. E' vero, tutto avviene sotto l'occhio vigile deUa polizia e dei militari cinesi che controllano l'altipiano con grandi basi disseminate nei punti strategici. Almeno fino al '93, nelle lande desertiche del Nord, il Chang Thang, era celata la «Nona Accademia», chiamata anche «Fattore 21», il principale centro di ricerca per la produzione delle armi nucleari cinesi che, secondo Dharamsala, avrebbe provocato in tutta l'area (da cui nascono alcuni grandi fiumi asiatici) mi irreparabile inqinnamento radioattivo. Questo complicato miscuglio di repressione e liberalizzazione affligge anche i musulmani, che sono praticamente l'unica minoranza religiosa del Paese. Entrato nel Tibet con i mercanti e i macellai nepalesi dal XVII secolo, l'Islam conta a Lhasa chea tremila fedeli. La cifra, fornita dall'Imam Ahong davanti all'ingresso della minuscola moschea, che da fuori, non fosse per il minareto, sembra una cappella buddhista, pare un po' esagerata. Che cosa prova il sacerdote di mi culto senza immagini assediato dal rutilante pantheon della religione più immaginifica del mondo? Tento di fare la domanda attraverso la guida tibetana. Il corpulento Imam, seduto sui gradini del portale, sorride, guarda il cielo, biascica qualcosa. Anche i pochi vecchi con la barbetta islamica che gli stanno intorno svicolano. Mi accorgo allora che c'è un poliziotto accanto alla mia spalla sinistra, chinato anche lui ad ascoltare una risposta che non verrà. Claudio Gallo Secondo il governo in esilio 4 mila monaci sono stati espulsi dai templi, e la tonaca è vietata ai minorenni. Ma i pellegrinaggi sono ripresi Hi A sinistra, monaci Geluppa nel cortile del monastero di Sera, alla periferia di Lhasa, si esercitano nei tradizionali duelli dialettici. Qui accanto, il villaggio tibetano di Zhang Mo, sulle pendici dell'Himalaya, posto di frontiera con il Nepal